A 70 anni dalla morte di Emmanuel Mounier. Il dossier di «Studium»

Il 22 marzo 1950, poco più di 70 anni fa, moriva Emmanuel Mounier, uno dei pensatori cattolici più rilevanti, insieme a Jacques Maritain, dell’attualità storico-politica francese negli anni ’30-’40 del secolo passato. Papa Francesco lo ricorda in un testo inedito, “Il cielo sulla terra. Amare e servire per trasformare il mondo”, che esce il 24 novembre per la Libreria Editrice Vaticana. Scrive il Papa che: «Un pensatore francese degli anni Trenta, Emmanuel Mounier, diceva che l’influsso importante del cristianesimo sulla civiltà europea è stato più un “effetto collaterale” della testimonianza dei primi cristiani che un piano preordinato; più la conseguenza gratuita di una fede vissuta semplicemente che l’esito di un programma culturale-politico elaborato a tavolino: «C’è sempre tra l’inizio e gli effetti una sorta di un percorso obliquo, sembra sempre che il cristianesimo produca effetti sulla realtà temporale come per sovrappiù, quasi talvolta per distrazione» (“Feu la Chrétienté”, 1950, 252). È quando il cristianesimo si radica nel Vangelo che dona il meglio di sé alla civilizzazione: «infatti il cristianesimo dà di più all’agire esteriore degli uomini quando cresce in intensità spirituale, piuttosto che quando si perde nella tattica e nella gestione» (Ibid., 253)».

In occasione della ricorrenza della morte la rivista «Studium», nel numero 4 di luglio-agosto, ha ricordato Mounier con un dossier, da me curato, su “Mounier a settant’anni dalla morte”. Il testo introduttivo, “Emmanuel Mounier. La vita, l’opera e la personalità”, è costituito dal primo capitolo del volume “Il Contributo filosofico di E. Mounier” di Armando Rigobello. Il testo, del 1955, è stato il primo volume uscito in Italia sulla figura di Mounier di cui Rigobello era uno specialista. Gli altri contributi del dossier sono a cura di M. Borghesi (“Emmanuel Mounier. Rivoluzione personalista e fine della cristianità”), di Luigi Alici (“Tra fede e storia: l’‘ottimismo tragico’ di Emmanuel Mounier”), di Calogero Caltagirone (“‘Essere e diventare persone?. Per un’‘etica del compimento’ in Emmanuel Mounier”).

A testimonianza dell’umanità di Mounier riporto qui la sua lettera alla moglie Paulette allorché la figlia, la piccola Françoise, si era ammalata di encefalite acuta.

«Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione. Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva, come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente, che volgeva lontano, lontano dietro di me, una specie di cenno simile allo sguardo, che vedeva meglio di uno sguardo. Se è vero che ogni autentica preghiera si fonda sulla morte delle potenze, sensibili, intellettuali, volontarie, se la sottile punta dell’anima di un bambino battezzato, come ha scritto non so più quale grande autore spirituale, è messa immediatamente in contatto diretto con la vita divina, quali splendori si nascondono allora in questo piccolo essere che non sa dire nulla agli uomini? Per molti mesi, avevamo augurato a Françoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù, la conosceremo in enigma e come in uno specchio».

Sempre a Paulette scriveva:

«Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo precedente, si rivela come una nuova richiesta di amore. […] Se a noi non resta che soffrire (subire, patire, sopportare), forse non ce la faremo a dare quello che ci è stato chiesto. Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come qualcosa che noi doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi, per non lasciarlo solo ad agire con Cristo. Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni d’una grazia sconosciuta».

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