Vi propongo questa riflessione, uscita il 24 giugno su La Versione di Banfi, una newsletter che comprende una piccola rassegna stampa quotidiana sotto forma di newsletter, oltre ad altri commenti e link a podcast e a video.
Alessandro Banfi (Torino, 1959), giornalista e autore tv, ha realizzato due Podcast nell’ultimo periodo: Le Vite degli altri, con Vita.it e Chora Media. E Le Figlie della Repubblica, con Fondazione De Gasperi e Corriere della Sera. Ha lavorato per Sky Italia a TV8 per “Ogni Mattina”. Ha lavorato a Raiuno per “La Vita in Diretta”. A Mediaset è stato Direttore di TgCom24, Condirettore e prima Vicedirettore di Videonews, autore di “Matrix”, di “Mattino 5” e vicedirettore del Tg5. Ha condotto nel 2011 la trasmissione di politica in prima serata su Rete 4 “La Versione di Banfi”. È stato cronista politico, caporedattore e direttore del settimanale Il Sabato.
La Versione di Banfi, 24 giugno 2022, Non siamo pronti per la guerra (Alessandro Banfi)
Lo sceriffo Ed Tom Bell ci fa riflettere sulle conseguenze morali dei conflitti. Una riflessione necessaria al quarto mese dall’invasione russa dell’Ucraina. Non ci sono buoni e cattivi
Nel grande romanzo di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi, c’è uno sceriffo texano che riflette, alla fine della carriera, sulla sua esperienza di ufficiale dell’esercito americano nella Seconda guerra mondiale. Ed Tom Bell, questo il suo nome, si porta dietro un grande senso di colpa, benché sia stato decorato con una medaglia al valor militare, perché pensa di non aver fatto abbastanza per i suoi commilitoni. L’episodio, raccontato nel capolavoro di McCarthy, non è niente di speciale: un agguato di nazisti ai margini di un bosco in Europa. Ma nella mente dello sceriffo Bell il rimorso ha lavorato come un tarlo, scavando gallerie e creando fantasmi.
La guerra angoscia, anche a distanza di anni: semina morte e distruzione per generazioni. E ora che siamo al quarto mese dall’invasione russa dell’Ucraina, la sensazione è che davvero niente sarà più come prima nella nostra Europa. Non solo nelle conseguenze per così dire economiche e geo politiche di quello che avviene: sarà infatti molto difficile ricostruire un rapporto col popolo russo, con la società e la cultura della Russia, e riaprire quel dialogo con Mosca che era nei desideri di Giovanni Paolo II. Ma anche nelle conseguenze per così dire morali: far prevalere la logica della guerra è infatti una scelta di campo che non potrà essere cancellata facilmente. Sono enormi le responsabilità di Vladimir Putin e dei dirigenti russi, ma ci sono anche macigni sulla coscienza di tutti coloro che, per altri fini, spingono per il proseguimento della guerra, inseguendo un ideale poco realistico di distruzione del nemico.
Ha ragione Papa Francesco, quando ricorda a tutti che la semplificazione da Cappuccetto Rosso dei “buoni” e dei “cattivi” è una favola insopportabile prodotta dalle propagande opposte: quella insultante e rozza dei vari Dmitrij Medvedev e quella bellicista alla Boris Johnson. Non solo, la guerra mostra anche il male morale che attanaglia il nostro secolo secolarizzato. Nel romanzo di McCarthy ragionando sulla guerra degli americani negli anni Settanta lo sceriffo afferma: “La gente dice che è stato il Vietnam a mettere in ginocchio questo Paese. Ma io non ci ho mai creduto. Questo Paese era già messo male. Il Vietnam è stata solo la ciliegina sulla torta. Non avevamo niente da dare a quei ragazzi da portarsi dietro. In pratica se li mandavamo senza fucili era la stessa cosa. Non si può andare in guerra in quel modo. Non si può andare in guerra senza Dio. Io non so cosa succederà quando arriverà la prossima. Non lo so proprio”.
Forse ci stiamo arrivando alla prossima guerra. Ci stiamo arrivando ad un’altra guerra mondiale (Kaliningrad sarà la nuova Danzica?) e la sensazione è che non siamo affatto pronti. Tutta la cultura relativista progressista, che arriva fino alle follie woke del politicamente corretto, e tutta la cultura sovranista e populista della religione civile fondamentalista, alla Kirill, spingono da poli opposti alla stessa negazione dell’umano. Una negazione dell’umano che taglia fuori il senso religioso, censura l’ umanesimo basato su quelle domande ultime sulla vita e sulla morte che McCarthy si pone ragionando sui morti ammazzati di droga in Messico. Quella posizione umana realista (prima che cristiana) che a volte sembra che solo il Papa tenga viva nella confusione e nel dramma del mondo contemporaneo.
È quel senso sacro dell’uomo e di Dio per cui Emilio Lussu rivede, in Un anno sull’altipiano, le sue convinzioni di interventista, in occasione della Prima guerra mondiale. Scrive nella pagina in cui racconta di aver messo nel mirino un austriaco nella trincea di fronte a sé: “Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo… come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato”.