Cecilia Ricci, dottore di ricerca in “Scienza del libro e della Scrittura”, si è laureata con me in Filosofia morale all’Università di Perugia. Ho avuto il privilegio di seguirla da vicino e da lontano. Studiosa del pensiero ebraico del ‘900 (Rosenzweig, Lévinas) è autrice del miglior lavoro, in italiano, su George Steiner: Leggere Babele. George Steiner e la “vera presenza” del senso, uscito nel 2015 per le Edizioni Mimesis. Come recita la sinossi del volume:
Ogni grande opera d’arte è abitata da una “vera presenza” realmente incontrabile. Nonostante l’intera teoria postmoderna proclami il vuoto di senso, questo residuo di mistero ultimo è irriducibile a ogni sforzo di rinnegamento e invera ogni nostro piacere letterario. Per questo, leggere i frammenti di Babele, ricostruendo le tappe della “crisi del senso” proclamata dalle discipline umanistiche nel ‘900, è la sfida che ha attraversato l’itinerario intellettuale di George Steiner. Ma Babele ha più volti. Quello positivo della molteplicità linguistica, dove ciascuna lingua è la custode dell’identità di un popolo e della sua speranza; e quello negativo del cumulo di macerie testuali prodotte dai numerosi epigoni del decostruzionismo. Radicato nel milieu ebraico di inizio ‘900 e mosso dalla gratitudine infinita nei confronti dei “classici”, Steiner ci conduce, passo dopo passo, a leggere le svolte delle grandi correnti di pensiero alla luce degli eventi drammatici del ‘900, indicandoci attentamente le modalità e i luoghi delle fugaci apparizioni della “vera presenza”.
Cecilia, che è insegnante da anni in storia e filosofia nei licei di Firenze, ha appena dato alle stampe un nuovo libro, dedicato alla sua esperienza didattica ed umana. Il titolo è “Banchi di vita”, la copertina è bellissima, la pubblicazione è a cura delle Edizioni Helicon ed è acquistabile a questo link (a breve sarà ordinabile nelle librerie e tra un paio di settimane nei principali canali di distribuzione online)
Il testo, come scrive Cecilia Ricci, esce «dopo un lungo percorso iniziato circa otto anni fa con la prima quinta liceo un po’ sgangherata ed idealmente popolata dei tanti alunni avuti negli anni successivi. Pezzi delle loro storie e delle loro parole mi sono rimasti conficcati dentro, dilatando il mio bisogno di risposte e abbracciando la mia umanità a lungo rattrappita. Perché l’insegnamento nasce (quasi) sempre da un debito di gratitudine». Le pagine del volume ci restituiscono un’immagine dimenticata della scuola, non quella dei programmi di lavoro, dei continui aggiornamenti, della burocrazia opprimente che ormai divora scuola ed università, ma quello degli incontri di una giovane insegnante di filosofia e storia che, alle prese con le domande degli autori, scopre l’umanità ferita dei suoi studenti fatta di dubbi, attese, speranze emerse durante le ore di lezione. “Banchi di vita” diviene così per l’insegnante un percorso di cambiamento che muove dalla pretesa di dare, di formare una materia amorfa, alla gratitudine verso ragazzi che, nel loro disorientamento e nella loro sperdutezza, hanno una umanità profonda, capace di provocare un mondo che, ogni giorno, si perde nell’abisso del grande cinismo.
Che forma ha il Bene? Quello che riceviamo, immeritato, o quello che doniamo per guarire segretamente le nostre colpe? Che natura aveva il mio, commensurabile al dolore da cui sgorgava incessantemente insieme alle mie quotidiane rivolte? Che senso poteva avere quell’amore che si celava, ruvido, nelle stanze sigillate della mia anemia di giustizia totale? (C. Ricci).