Il potere e la grazia: Ratzinger e il volume di “30Giorni” su sant’Agostino

Il 21 settembre del 1998, presso la Sala del Cenacolo dell’ex monastero di Santa Maria della Concezione a Roma, proprietà della Camera dei deputati, si svolse la presentazione del volume Il potere e la grazia. Attualità di sant’Agostino, edito dalla rivista internazionale 30 Giorni e dall’editrice Nuova Òmicron. Il testo venne presentato dal senatore Giulio Andreotti e dal cardinal Joseph Ratzinger. Ripubblico qui la relazione del cardinale insieme alla mia presentazione di allora. I due contributi, insieme a quelli di Andreotti, p. Nello Cipriani e Claudio Petruccioli, furono pubblicati con il titolo Il potere e la grazia, su 30Giorni, 5, 2005, pp. 44-55.

IL POTERE E LA GRAZIA

La relazione del cardinal Ratzinger al volume di 30 Giorni su S. Agostino del 1998

Massimo Borghesi:

Brevemente richiamo i contenuti del volume e il senso di questa pubblicazione, a partire innanzitutto dal titolo. Esso ricorda Il potere e la gloria di Graham Greene. Ma un titolo analogo reca anche l’opera di Reinhold Schneider, non tradotta in italiano, Macht und Gnade (Potere e grazia). Il volume che presentiamo costituisce la conclusione di un iter concettuale. Ha un suo significato nella misura in cui raccoglie una riflessione che non è da oggi, ma proviene da lontano. Sarebbe interessante, da questo punto di vista, ripercorrere gli ultimi anni del settimanale Il Sabato per osservare una continuità di riflessione con 30Giorni. Non a caso alcuni articoli raccolti nel volume provengono proprio da Il Sabato. Ebbene, Il Sabato, alla fine degli anni Ottanta, aveva sviluppato una critica puntuale alla priorità accordata da ampi settori della Chiesa alla “questione etica” totalmente incentrata sulla “crisi” e sulla “restaurazione” dei valori. Fu allora utilizzato il termine “pelagianesimo” per indicare l’ideologia moralistica che soggiaceva alla prassi ecclesiale. In fondo fu Il Sabato che risollevò il nome di Pelagio, autore allora per lo più sconosciuto al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori. Si voleva con ciò richiamare l’urgenza che la Chiesa non si riducesse a essere una sorta di agenzia etica del mondo in crisi, ma riscoprisse, più profondamente, la propria missione e il proprio significato nel mondo contemporaneo. In fondo, la Chiesa come agenzia etica tendeva a far propria l’idea della “riforma intellettuale e morale” nei termini in cui ne parlava Antonio Gramsci. L’intento di fondo era dato dal problema dell’egemonia, una egemonia “cattolica” da riconquistare proprio sul terreno della moralità e dei costumi. Ricordo come, in quegli anni, una critica del pelagianesimo da sinistra fosse contenuta negli scritti postumi di Claudio Napoleoni Cercate ancora. Lettere sulla laicità. Ebbene, da Pelagio, per una conseguenza quasi necessaria, si era rimandati al suo interprete e critico per eccellenza: Agostino. Non credo di sbagliare osservando come, alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, Agostino nell’ambito culturale cattolico fosse pressoché ignorato. Era conosciuto, certo, l’autore delle Confessioni. Ma l’Agostino teologo della grazia nonché il grande teorico della Città di Dio, cioè di una riflessione storico-politica a partire dal cristianesimo, era totalmente dimenticato anche nell’ambito più ristretto degli studi.

Cosa significava e cosa significa Agostino nei saggi raccolti nel volume? Innanzitutto vuol dire riaccedere a un’ottica “premedievale”, a un’ottica cristiana che riflette sul mondo prima del Medioevo, prima cioè di una “cristianità stabilita”. Quindi un cristianesimo che ancora si paragona con il paganesimo. Tutto questo, è inutile dire, richiama profondamente la situazione contemporanea. Anche noi oggi siamo in una prospettiva per tanti aspetti analoga e simile a quella del cristianesimo dei primi secoli.

In secondo luogo Agostino richiama una posizione realistica, capace di un’analisi dura e disincantata del potere, delle leve e dei meccanismi del potere, di come il cristiano debba rapportarsi ad esso. Ci sono nel volume alcuni saggi di Roberto Esposito e di Giacomo B. Contri molto interessanti in proposito. Concezione realistica epperò, al contempo, non assolutistica ma tollerante. Né lo Stato deve prevaricare sulla Chiesa né questa deve identificarsi con quello. Gran parte delle interviste a padre Nello Cipriani ruotano intorno al tema delle “leggi imperfette”, delle leggi, cioè, non totalmente conformi al diritto naturale. Nella concezione agostiniana la Chiesa deve tollerare le cosiddette leggi imperfette nella misura in cui concorrono a consentire quella pace sociale da cui essa stessa trae sicuri benefici. In tal modo la riflessione storica di Agostino si colloca tra Origene ed Eusebio di Cesarea. In proposito, uno dei testi più citati nel libro è L’unità delle nazioni, del cardinale Ratzinger, uno studio del 1971 dedicato al paragone tra Agostino e Origene. Origene, a partire da un cristianesimo tendenzialmente gnostico-rivoluzionario, tende a delegittimare gli ordinamenti dello Stato nella misura in cui non sono conformi alla morale cristiana. Su un versante opposto si colloca, invece, la posizione di Eusebio di Cesarea, sul quale sono da vedere i penetranti rilievi di padre Raffaele Farina, per il quale dopo Costantino c’è ormai perfetta identità tra cristianesimo e Impero romano. Tra queste due posizioni emerge la posizione di Agostino che non ha come preoccupazione la cristianizzazione dello Stato. Anche quando lo Stato sia retto da un imperatore cristiano, esso rimane Stato “terreno”, né altro può diventare.

Terzo rilievo: come è possibile il realismo agostiniano? Qual è il punto di vista che consente ad Agostino di guardare al potere in modo così obiettivo e disincantato? Ciò è possibile perché egli giudica il potere a partire da un punto a esso esterno. Per lui infatti le “città” sono due. Questa è la grande intuizione agostiniana, che, smarrita nel pensiero politico medievale (e su ciò si vedano le puntuali osservazioni di Elvio Ancona), si oppone all’utopia moderna, sia essa laica o cristiana, per cui la città è una e a essa occorre dedicare ogni energia per renderla perfetta. Ebbene, per Agostino le città sono due e non possono essere identificate. E, tuttavia, sono perplexae, sono mescolate sino alla fine del mondo. In tal modo alcuni della città del mondo si troveranno in paradiso mentre altri, della città di Dio, si perderanno.

Quarto elemento di interesse: il rapporto tra grazia e libertà. Se le città sono perplexae, la dinamica di accadimento del cristianesimo non può che svolgersi mediante incontri umani significativi, vale a dire nel rapporto tra grazia e libertà. Ciò va al di là e scompagina appartenenze ideologiche, politiche, settoriali. Rilevante in un contesto come quello attuale è la possibilità di incontrare uomini, persone, nel loro cuore, indipendentemente da schemi prefissati.

Una grazia persuasiva. Ci sono alcuni brani molto belli che Lorenzo Cappelletti ha tratto dal De gratia Christi et de peccato originali dove Agostino critica e condanna Pelagio perché egli insiste soltanto sulla grazia come illuminazione dell’intelletto, cioè sulla grazia mediante l’insegnamento della dottrina, quasi che il cristianesimo coincida solamente con l’esposizione di una dottrina, morale o non morale che sia, quasi che si possa diventare cristiani semplicemente per l’apprendimento di una dottrina. E Agostino invece insiste su una grazia che tocca oltre la dottrina anche i cuori. Quindi una grazia persuasiva che richiede una testimonianza reale.

Da ultimo, e concludo, c’è l’ecumenismo, l’ultimo termine che affiora come motivo di interesse e di attualità di Agostino. Alcuni brani molto belli alla fine del volume tratti da più opere di Agostino insistono proprio sul fatto che non bisogna mai abbandonare l’intuizione di verità dell’altro per criticarne l’errore. La critica dell’errore non deve impedire di vedere quanto di vero c’è, e bisogna separare verità ed errore in modo che l’altro sia portato al riconoscimento della verità piena. Questo senso ecumenico e universale è anch’esso un tema di grande interesse e attualità nel contesto contemporaneo

 

Joseph Ratzinger:

Signor senatore, eccellenze, signore e signori, innanzitutto devo un po’ precisare, o addirittura correggere, il testo dell’invito: infatti, a causa dei miei tanti impegni nei mesi passati, non ho trovato il tempo per una lettura approfondita e seria di questo libro. E perciò non mi trovo sufficientemente preparato per una vera presentazione. Nonostante questo, ho voluto dire sì all’invito semplicemente a motivo della mia amicizia e ammirazione per sant’Agostino. Poi, perché mi arreca realmente gioia il fatto che una rivista di informazione come 30Giorni abbia presentato per mesi al grande pubblico questa figura in un dialogo col nostro tempo. Un dialogo che realmente evidenzia la profondità e l’attualità del suo pensiero. Questo fatto, che sant’Agostino diventa accessibile alle nostre domande, e nella nostra attualità, è il mio motivo di gioia e quindi ho detto un sì un po’ paradossale, forse non giustificato, in una situazione in cui forse avrei dovuto dire no.

Quindi, devo chiedere scusa se mi presento abbastanza impreparato e incapace di presentare questo libro così da mostrare il suo reale valore, il suo contenuto profondo.

Mi sento in grado di fare alcuni accenni ai due elementi che a me, a una lettura superficiale, appaiono come i più importanti e che si vedono presenti nel titolo: il potere e la grazia. Quando cinquant’anni fa ho cominciato a dialogare con sant’Agostino, l’ho trovato quasi subito come un mio contemporaneo. Un uomo che non parla da lontano e da un contesto totalmente diverso dal nostro, ma che, avendo anzi vissuto in un contesto molto simile al nostro, risponde, naturalmente alla sua maniera, a problemi che sono proprio anche problemi nostri.

Il primo problema nascosto sotto la parola “potere” è quello della cosiddetta teologia politica, della relazione tra mondo politico e mondo religioso. Il senatore Andreotti ha già accennato come anche questo contesto ci faccia molto pensare sulla relazione tra i due mondi. Agostino ha vissuto in un Impero giuridicamente cristiano, dove il cristianesimo era religione di Stato anche se la maggioranza dei cittadini ancora non erano cristiani. L’imperatore era cristiano e si considerava il protettore della Chiesa, anzi la personificazione della Chiesa, che era per lui quasi identificata con l’Impero. E in uno Stato in cui il cristianesimo è religione ufficiale, intrecciandosi con i gradi più alti dello Stato, è grande il pericolo che anche il teologo e il vescovo perdano di vista la differenza tra le due cose e si arrivi a una politicizzazione della fede incompatibile sia con la sua libertà sia anche con la sua universalità. In realtà, nel periodo e nella generazione precedenti a sant’Agostino, Eusebio di Cesarea aveva creato una teologia politica in questo senso, nella quale l’Impero e la Chiesa quasi si identificano. L’Impero diventa il modo in cui Dio realizza il suo progetto per la storia. Il problema di quest’identificazione si è rivelato nella crisi ariana, che non è solo una crisi di insegnamento cristologico, di fede cristologica, ma è soprattutto una crisi del problema della giusta relazione tra Stato e Chiesa, tra politica e fede. Pensiamo soltanto all’episodio relativo al Sinodo di Milano del 355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell’imperatore che voleva che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non compatibile con le leggi della Chiesa, l’imperatore Costanzo risponde: «La legge della Chiesa sono io». La fede è divenuta, quindi, una funzione dell’Impero. Eusebio è, con pochi altri, una delle grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua universalità. Questo, una generazione dopo, nella vita di sant’Agostino, appare già più difficile perché la fede nicena nel frattempo è accettata anche dagli imperatori. Quindi, non esistendo più questi conflitti, si potrebbe facilmente essere tentati di entrare in questa identificazione, arrivando così a un’inculturazione della fede nella quale fede e cultura si identificano in un modo inseparabile, e la fede perde così la sua universalità sia diacronica che sincronica. La fede non è, cioè, più in grado di comunicarsi ad altri mondi di cultura, né ad altri tempi con altre culture. Sant’Agostino era, in questa grande tentazione, la figura che ha difeso la differenza essenziale che, anche in situazioni privilegiate di quasi identità della popolazione, non può mai scomparire. Certamente egli fu aiutato dal fatto che nell’anno 410 i Goti conquistarono Roma, la saccheggiarono, e i pagani reagirono dicendo: «Ecco, questo è successo adesso con il cristianesimo. Quando c’erano ancora gli dèi della patria, Roma era difesa, era la capitale del mondo. Adesso avete espulso gli dèi, e san Pietro e san Paolo, i vostri patroni, non sono in grado di difendere la città. Vediamo che bisogna tornare agli dèi». E così i pagani si fanno (giustamente dal loro punto di vista) propagatori di una teologia politica in cui gli dèi sono in funzione dello Stato e lo Stato è in funzione delle divinità. Proprio in questa situazione di profonda crisi spirituale, sant’Agostino capisce e vede che l’identificazione è una caratteristica della religione pagana, in cui le divinità sono autoctone, sono le divinità parziali di questa realtà. Mentre una fede che crede nell’unico Dio, nel Dio di tutti i popoli e di tutte le culture, non può conoscere questa identificazione. E così insiste sul fatto che Chiesa e Stato non possono confondersi. La Chiesa in tutta la sua fragilità, in tutto il suo inserimento nelle cose umane di un determinato tempo, anche nei peccati di un certo tempo, tuttavia è una realtà diversa, un segno di una nuova società futura che adesso non è Stato, ma che si annuncia, tramite la Chiesa, per il futuro e muove la storia verso il futuro. Mentre lo Stato rimane lo Stato del presente e la sua funzione è distinta dalla Chiesa.

Non vorrei adesso approfondire questo, ma mi sembra che il grande merito di sant’Agostino sia di aver creato questa filosofia, questa teologia della diversità delle funzioni, nella responsabilità comune guidata dai valori che possono costruire una società giusta. Sappiamo bene quanto fosse difficile per i contemporanei di sant’Agostino comprendere questa distinzione. Già il suo amico Orosio, nel suo libro sulla storia, sulla città di Dio, cade più o meno nella identificazione. Poi, il Medioevo ha creato un agostinismo politico che era un malinteso del vero agostinismo. Ma, con le letture approfondite, riappare la grandezza della figura di sant’Agostino. E penso che una filosofia politica e una vera ecclesiologia, una fede nell’unico Dio che è Dio di tutti, la ricerca di una vera universalità della fede che si esprime in tutte le culture, non identificandosi mai con una sola di esse, possano anche oggi imparare molto dal dialogo con sant’Agostino.

Secondo punto: il titolo del libro parla del potere e parla della grazia. Come sappiamo, nella seconda e ultima tappa della vita di sant’Agostino, è divenuto questo il suo grande tema, mentre nel dibattito sia con la reazione pagana sia con il donatismo ha visto soprattutto la necessità di riflettere il tema del potere e della diversità delle sfere. Entra poi, costretto dalla situazione, in un dibattito con certe tendenze del monachesimo del suo tempo, con un moralismo, la cui figura eccellente era Pelagio, in cui il monachesimo, che inizialmente era proprio vita dell’adorazione e fuga saeculi, come si diceva, diventa un moralismo nel quale si costruisce, con le forze della moralità umana, la nuova società. E la tentazione di trasformare il cristianesimo in un moralismo e di concentrare tutto sull’azione morale dell’uomo è grande in tutti i tempi. Perché l’uomo vede soprattutto sé stesso. Dio rimane invisibile, intoccabile, e quindi l’uomo si appoggia soprattutto sulla sua propria azione. Ma se Dio non agisce, se Dio non è un vero soggetto agente nella storia che entra anche nella mia vita personale, allora che cosa vuol dire redenzione? Che valore ha la nostra relazione con Cristo e così col Dio trinitario? Mi sembra che la tentazione di ridurre il cristianesimo a un moralismo è grandissima anche nel nostro tempo, e sono molto grato che 30Giorni sottolinei spesso questo problema. Perché noi viviamo un po’ tutti in un’atmosfera di deismo. La nostra idea delle leggi naturali non ci permette più facilmente di pensare a un’azione di Dio nel nostro mondo. Sembra che non ci sia spazio perché possa agire Dio stesso nella storia umana e nella mia vita. E così abbiamo l’idea che Dio non può più entrare in questo cosmo, fatto e chiuso contro di lui. Che cosa rimane? La nostra azione. E dobbiamo trasformare noi il mondo, dobbiamo noi creare la redenzione, dobbiamo noi creare il mondo migliore, un mondo nuovo. E se si pensa così, ecco che il cristianesimo è morto, il linguaggio religioso diventa un linguaggio puramente simbolico e vuoto. E 30Giorni ha il grande merito di aver mostrato come in preghiere moderne, anche nelle traduzioni delle preghiere liturgiche, c’è questa tentazione di lasciar cadere la speranza di un intervento di Dio – sembra troppo ingenuo sperare questo – che trasforma tutto in appelli al nostro agire. Molto comprensibile. Ma allora ci manca proprio il vero dialogo, ci manca la forza dell’amore eterno che è la vera forza che può rispondere alle sfide della nostra vita e della politica. Agostino ha conosciuto questa tendenza. Ha risposto fortemente e, essendo il dottore della grazia, ci invita a seguirlo e ad affidarci con la nostra azione alla comunione con l’azione di Dio, a credere che l’amore è un potere – un potere anche nel mondo di oggi – e che l’amore ha la capacità di trasformare il mondo e provoca il nostro amore, e in questa comunione delle due volontà, per così dire, si può andare avanti. Quindi, con altre parole, Agostino insegna che la santità e la rettitudine cristiane non consistono in una qualche sovrumana grandezza o in qualche talento superiore. Se fosse così, il cristianesimo diventerebbe una religione per alcuni eroi o per gruppi di eletti, per monaci che hanno il tempo di farlo e le forze per farlo. Era questa la visione della filosofia della tarda antichità, per cui i filosofi hanno la capacità di elevarsi fino alla divinità, mentre la gente semplice deve accontentarsi e vivere a un livello inferiore. Agostino dice no, dice che la fede cristiana è proprio la religione dei semplici, il Signore si comunica ai semplici. Quindi non è una cosa sovrumana, ma si realizza nell’obbedienza che si pone a disposizione là dove Dio chiama, quella stessa obbedienza che non si affida al proprio potere o alla propria grandezza, ma si fonda sulla grandezza del Dio di Gesù Cristo ed è consapevole che tale grandezza divina si può trovare proprio nel servire e nel perdersi, nel lasciarsi guidare dalla verità e nel lasciarsi muovere dall’amore.

Un’ultima osservazione. Il titolo mi ispira ancora un ultimissimo pensierino. Il potere e la grazia: potrebbe essere tradotto, o almeno vi potrebbe essere associato anche un altro termine: il visibile e l’invisibile. Nei nostri tempi, la sollecitazione del visibile, del controllabile, è cresciuta ancora di più, al punto che oggi ci si crede più emancipati, più assennati perché prendiamo sul serio solo ciò che è visibile e ciò che possiamo dominare. In realtà, ciò diminuisce la capacità visiva della nostra mente e del nostro cuore. Non riusciamo più a guardare l’invisibile e l’eterno, senza il quale in realtà tutto il visibile non potrebbe sussistere ed esistere.

Per concludere, Agostino è attuale anche per questo. Perché la sua figura è un’esortazione a fidarci dell’invisibile, a riconoscere ciò che veramente è importante e determinante per la nostra vita.

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