«Innamorato di Cristo e del mondo». Don Luigi Giussani a cento anni dalla nascita

L’Osservatore Romano mi ha chiesto un ricordo di don Giussani che è stato pubblicato venerdì 14 ottobre, il giorno prima del centesimo anniversario della nascita. Ne riporto il testo.

L’Osservatore Romano, venerdì 14 ottobre, p. 6, Innamorato di Cristo e del mondo – Don Luigi Giussani a cento anni dalla nascita (MASSIMO BORGHESI)

In un articolo pubblicato su «La Repubblica» Giuliano Pisapia, ricordando i suoi anni al Liceo Berchet di Milano, ha recentemente rievocato lo «strano professore di religione “brutto e affascinante” che rompeva ogni schema cui eravamo abituati. Non ci riempiva di nozioni e rispondeva a tutte le nostre domande, ai nostri dubbi, insegnandoci un metodo. […] Don Gius, così lo chiamavano, ci ascoltava e cercava di comprendere le ragioni dell’altro. Dialogo e confronto anche critico, un metodo che non mi ha mai lasciato, un insegnamento rimasto nella mia vita come in quella di molti miei compagni di scuola. Il suo cattolicesimo, la sua testimonianza di fede non era la ripetizione mnemonica di insegnamenti e dogmi ma la volontà di vivere una fede vissuta sul campo. Un metodo che — l’ho scoperto qualche anno dopo — aveva affinato sin dai suoi primi anni di vita con un papà socialista e una mamma cattolica» (Tutto quello che ho imparato da don Giussani). La testimonianza di Pisapia, che è stato sindaco di Milano come indipendente di sinistra dal 2011 al 2016, è preziosa. Indica la stima e l’apprezzamento verso il sacerdote di Desio anche da parte di chi ha percorso strade molto lontane dalle sue.

Luigi Giussani, di cui il 15 ottobre celebriamo il centenario della nascita, è stato probabilmente il più grande educatore nell’Italia della seconda metà del ’900. Alberto Savorana nella sua documentata Vita di don Giussani (Rizzoli, 2014) ricorda i tanti studenti, taluni divenuti famosi, che il sacerdote ebbe come allievi. Tutti colpiti dalla personalità del docente “brutto e affascinante” dalla voce roca che, con passione e intelligenza, li provocava a essere inquieti, a non accontentarsi, a misurarsi con Cristo come risposta al desiderio di vivere. Per lui, come scriveva, «la grandezza della fede cristiana, senza nessun paragone con qualsiasi altra posizione, è questa: Cristo ha risposto alla domanda umana. Perciò hanno un destino comune chi accetta la fede e la vive e chi, non avendo la fede, si annega dentro la domanda, si dispera nella domanda, soffre nella domanda». Risuonava qui un cuore agostiniano-pascaliano, un cuore che nel giovane seminarista di Venegono si era incontrato con il domandare inquieto che traluceva dalle poesie di Leopardi. Al giovane Giussani, Cristo appariva come la risposta al vuoto drammaticamente espresso dal poeta di Recanati. «Ho intuito — scriveva — con struggimento che quello che si chiama “Dio” – vale a dire il Destino inevitabile per cui un uomo nasce – è il termine dell’esigenza di felicità, è quella felicità di cui il cuore è insopprimibile esigenza». Era, in nuce, la problematica de Il senso religioso, il testo del 1957 che, ampliato e corretto, vedrà altre due edizioni nel 1966 e nel 1986. Problematica nuova allora nel panorama teologico, guardata con sospetto per i ricordi suscitati delle deviazioni moderniste, che Giussani affronta e imposta seguendo, in taluni punti fedelmente, la Lettera pastorale quaresimale alla diocesi ambrosiana Sul senso religioso, del 1957, scritta dall’allora arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini. In profonda sintonia con il suo arcivescovo, Giussani non si accontentava di un cristianesimo tradizionale, convenzionale e formalistico. Voleva una fede viva, una fede che corrispondeva alle esigenze profonde dell’animo umano. Per questo la proposta cristiana doveva portare alla scoperta di Cristo, del contenuto storico del Vangelo, della divino-umanità di Gesù.

Non era solo la sua personale sensibilità che lo portava a questo “cristocentrismo esistenziale”. Era anche il risultato dell’insegnamento di colui che Giussani riconoscerà come suo vero maestro a Venegono: don Gaetano Corti. Per Corti affinché un uomo possa credere in Cristo bisogna che lo conosca, e «per conoscerlo nella sua concreta personalità storica deve in certo modo frequentarlo, come l’hanno frequentato gli Apostoli e i primi discepoli che hanno tratto da questa esperienza diretta la loro fede in Lui. Anche oggi un uomo, per credere in Cristo, deve ripetere in certa maniera e misura l’esperienza dei primi suoi discepoli; deve come loro sentirLo parlare, vedere agire, operare miracoli, piangere, soffrire; morire; risuscitare, salire al cielo. In tal modo egli penetrerà poco a poco nell’anima di quell’uomo che si chiama Gesù, entrerà nel mondo intimo dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti». Per tutta la vita Giussani applicherà il metodo di don Gaetano Corti, lo declinerà in un’esperienza educativa unica nel panorama giovanile italiano, e poi internazionale, del dopoguerra. Con quel metodo raggiungerà tre generazioni: quella degli anni ’50, caratterizzata dal clima esistenzialista; quella degli anni ’70, segnata dalla politicizzazione integrale del vento della contestazione; quella degli anni ’90 immersa nella globalizzazione. In tutte lascerà la traccia del suo timbro di voce, del suo accento, del modo appassionato con cui parlava della vita e di Cristo. Un caso più unico che raro di personalità cristiana capace di perforare il muro determinato dalla secolarizzazione.

Comprende, come pochi altri, in profonda sintonia con ciò che scriveva Pier Paolo Pasolini, che il ’68 segna la fine di un mondo, anche di quello cristiano. Non indulge, per questo, al pessimismo. In lui è chiaro il giudizio che occorreva, nel cammino della fede, ripartire dall’inizio: «Come 2000 anni fa». Nel “Volantone” di Pasqua del 1982 si chiederà: «Come possiamo rispondere a questa domanda noi che non siamo stati alle nozze di Cana, che non abbiamo visto il paralitico guarire, che non abbiamo assistito al funerale di Naim, che non lo abbiamo seguito per tre giorni nella steppa, dimenticando persino il cibo? La familiarità con Lui da cui nasce l’evidenza della sua parola come unica che dia senso alla vita, come possiamo viverla? Il modo c’è: la compagnia che da Cristo è nata ha investito la storia; è la Chiesa, suo corpo, cioè modalità della sua presenza oggi. È perciò una familiarità quotidiana di impegno nel mistero della sua presenza entro il segno della Chiesa. Di qui può nascere l’evidenza razionale, pienamente ragionevole, che ci fa ripetere con certezza ciò che Lui, unico nella storia dell’umanità disse di sé: Io sono la via, la verità, la vita».

A partire dagli anni ’80 questa compagnia, questa “amicizia cristiana”, trova il suo inizio nell’incontro, incontro con testimonianze che rendono presente nella loro vita Gesù, che rendono presente il mistero. Grazie a Giussani categorie come “incontro”, “avvenimento”, “fatto cristiano”, “presenza ”, entrano dentro il lessico teologico, divengono usuali. Non sono solo “categorie”, sono i terminali di un’esperienza in atto che il sacerdote di Desio verificava a ogni passo. «L’avvenimento cristiano —scrive — si palesa, si rivela, nell’incontro con la leggerezza, la sottigliezza e l’apparente inconsistenza di un volto che si intravede nella folla: un volto come gli altri, eppure così diverso dagli altri che, incontrandolo, è come se tutto si semplificasse. Lo vedi per un istante, e andando via porti dentro di te il colpo di quello sguardo, come dicendo: “Mi piacerebbe rivederla quella faccia!”».

Negli ultimi anni la sua vecchiaia è segnata dal parkinson, da una malattia che lo mette costantemente alla prova. Conia una nuova definizione della fede: «La fede è riconoscimento “amoroso”. È una conoscenza amorosa». Amore e misericordia sono le parole che l’accompagnano nell’ultimo periodo. Confessa alla sua fisioterapista: «Sai che cosa ho capito ai miei 80 anni? Che la misericordia non è il perdono, ma l’amore all’origine. […] In quella drammatica scena, quando Giuda si presenta davanti a Gesù nell’orto degli ulivi, la prima parola che Gesù gli dice è “amico”. Non gli dice: “Io ti perdono ciò che stai per fare”. Lui afferma prima l’amore, per muovere la libertà dell’altro». Per questo si fa cantare O Jesu mi dolcissime, terminando con una preghiera: «Oh Gesù mio dolcissimo, amico, fratello, compagno, è con te che io cercherò di trascinarmi tutti gli uomini che incontrerò, di trascinarmeli con te Signore, perché il nulla non abbia nessun possesso a nostro carico». Don Giussani muore a Milano il 22 febbraio 2005.

1 pensiero su “«Innamorato di Cristo e del mondo». Don Luigi Giussani a cento anni dalla nascita”

  1. Quando uno ha avuto un grande maestro, Gaetano Corti, che quando il Gius lo incontrava nei chiostri della Cattolica lo salutava con le parole di Dante a Virgilio : ” Ecco lo mio maestro e lo mio autore”, e Corti si schermiva, ci viene subito da pensare che il Gius per primo è stato figlio e non discepolo. E così poi si è rivelato padre, ma padre davvero. Non padre metaforico o padre educatore ma “padre” esistenzialmente , affettivamente parlando. Gaetano Corti gli ha impresso nel cuore il Cristianesimo come <> con Cristo; e l’uomo di oggi <<come i primi discepoli, come loro, deve sentirLo parlare, vedere agire, operare miracoli, piangere, soffrire; morire; risuscitare, salire al cielo. In tal modo egli penetrerà poco a poco nell’anima di quell’uomo che si chiama Gesù, entrerà nel mondo intimo dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti».

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