Le chiese vuote e l’Università Cattolica. Dialogo con Luca Doninelli

Pubblico, con il consenso dell’autore, una mail che Luca Doninelli mi ha inviato dopo aver letto il mio articolo “Le chiese vuote e l’alibi della secolarizzazione” pubblicato ne “L’Osservatore Romano” del 15 maggio. Mi è parso che il modo migliore di ringraziare Luca fosse quello di una risposta. Scrittore, giornalista, editorialista e insegnante, Doninelli non ha bisogno di presentazioni, qui una breve biografia e un elenco delle sue opere.

 

Milano 15/05/21

Caro Massimo,

potrà forse interessarti un pezzo della mia storia.

Nel 1975 mi iscrissi alla Facoltà di Filosofia dell’Università Cattolica di Milano. Gustavo Bontadini, esponente della cosiddetta filosofia neoclassica, in garbata polemica con la neoscolastica allora prevalente (Sofia Vanni Rovighi), era da poco andato in pensione e teneva un corso libero di Istituzioni di Filosofia, il primo al quale partecipai. Bontadini fu, come sai, professore di Emanuele Severino, che non lo disconobbe mai e lo considerò sempre suo maestro.

L’eco dello strappo di Severino si avvertiva ancora, nell’Istituto di Filosofia, al 3° piano di Largo Gemelli. Ricordo di aver sentito più volte – credo dalla Vanni o da qualche esponente della sua corrente – a proposito di Severino l’espressione «figlio illegittimo di questa università». Ora, non mi ci volle molto per capire che le cose non stavano così, e che Severino era figlio più che legittimo del modo di ragionare – nel bene e nel male – della Facoltà di Filosofia. Neoclassici (direi meglio neoparmenidei) e neotomisti avevano diversi punti in comune, anche se nei convegni amavano battibeccare. Uno di questi punti era l’avversione per l’epoca moderna: ci facevano leggere (per fortuna) tanti classici moderni e poi li confutavano, e all’esame ci chiedevano sempre, dopo aver verificato la nostra conoscenza di quei testi, anche gli argomenti contrari. Niente di male, certo, visto che in questo modo ho potuto leggere diversi testi cartesiani, la tre Critiche kantiane, la Fenomenologia di Hegel, e poi Husserl, Heidegger, Wittgenstein. I loro libri sono ancora nella mia libreria.

Ma c’era anche un altro punto in comune, ben più importante: il problema del rapporto della ragione con la Chiesa e con le verità di Fede. Su questo punto la rottura di Severino fu ai miei occhi come sale su una piaga non rimarginata. Ebbi l’impressione (e ce l’ho tuttora) che la Fede fosse come una specie di amato, venerato ingombro, un masso sulla strada, che si poteva pregare ma che restava un masso sulla strada – spero di essermi spiegato. Il cristianesimo veniva concepito non come la pienezza dell’umano in tutte le sue potenzialità ma, al contrario, come una specie di diminuzione, di attenuazione. I principi del pensiero razionale valevano sì, ma di fronte al mistero della Fede e all’autorità della Chiesa era come se potessero venir meno, passare in sottordine. Insomma, il cattolico è un uomo che guida con prudenza, paga le tasse, si mostra imparziale in ogni occasione, e in generale coltiva passioni più moderate rispetto agli altri.

In altre parole: non ho mai trovato messo a tema lo sviluppo della personalità umana come esito di una fede profondamente, consapevolmente, criticamente ragionevole. Il cristianesimo era, alla fin fine, una lodevolissima fregatura, un abbassamento dell’energia umana.

Ebbi anche l’impressione, un paio d’anni dopo, che ci fosse un tema di fondo legato al desiderio. Il desiderio era come indirizzato fuori dalla Fede. La Fede era una specie di dovere magari bellissimo ma non desiderato, perché quello che si desiderava era in realtà di diventare come gli altri, anzi, l’avversione per la modernità nascondeva (ancora per poco) una specie di invidia per il mondo. Non può essere casuale il fatto che non solo il ’68 italiano cominciò lì, ma che la Cattolica divenne luogo d’appoggio per posizioni anche filoterroriste: ricordo bene il giorno in cui Borromeo, direttore amministrativo, fu arrestato per connivenza col terrorismo, e soprattutto ricordo benissimo un colloquio di Filosofia Antica che sostenni con certo prof. […] il giorno prima della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro, quando durante la manifestazione di piazza mi ritrovai a mezzo metro di distanza dal gruppo degli autonomi che gridavano «10, 100, 1000 Aldo Moro», e in mezzo a loro c’era il prof. […], e ci guardammo negli occhi.

Per finire. Le parole del Papa da te citate sono importanti ma vanno liberate da qualunque sospetto di ambiguità. Mi spiego. Se devo dire in cosa si è distinta la Cattolica negli anni successivi, a dispetto della presenza di eccellenti insegnanti, è stata la crescita d’importanza della sociologia e degli studi di comunicazioni sociali. Ho partecipato a convegni nei quali a una grande competenza su questo campo corrispondeva un’insipienza e una debolezza di pensiero davvero sconcertante: quasi che il problema della Fede fosse un problema di comunicazione, un problema sociologico. Le chiese sono piene di preti che parlano più di «generatività» e di «cambio di paradigma» che di Gesù Cristo.

Se le parole del Papa vengono intese in questo senso, Massimo, sarebbe un’occasione persa. Non dobbiamo credere che tutti abbiamo la Fede ma sbagliamo il modo di comunicarla, facendo leva sui concetti anziché sul «sentire». Non è un problema di strategia comunicativa, ma un problema di persuasività della Fede. Il problema è, certo «come comunichiamo», ma il «come» non è una strategia, è l’espressione di un «chi».

Il discorso sarebbe ancora molto lungo, e forse le cose più interessanti verrebbero proprio ora, perché ora comincia il «che fare?». Ma su questo sarà bello discorrere insieme, e per me sarà bello ascoltarti. Ho parlato fin troppo.

Ti abbraccio forte, tuo

Luca

 

16/05/21

Carissimo Luca,

grazie della tua ricca e personale riflessione sull’esperienza avuta negli anni in cui hai frequentato la Facoltà di Filosofia della Cattolica. Nel mio articolo chiamavo in causa l’Università Cattolica non per i suoi pregi, che sono tanti se misurati con la povertà del pensiero cristiano attuale, ma per il nodo problematico del rapporto tra ragione e fede. In Cattolica, tu scrivi: «non ho mai trovato messo a tema lo sviluppo della personalità umana come esito di una fede profondamente, consapevolmente, criticamente ragionevole». La fede non corrispondeva, cioè, alle esigenze più profonde dell’animo umano, alle dinamiche della ragione e del cuore, e la teologia non mostrava alcun nesso con l’antropologia. La filosofia Neoscolastica si era formata, alla fine del 800, rispondendo a due sfide: il fideismo da un lato e lo scientismo positivistico e naturalistico dall’altro. Voleva dimostrare, da un punto di vista rigorosamente razionale, l’esistenza di Dio che la cultura positivistica tendeva ad escludere. Nel far ciò, però, essa ricalcava stranamente il naturalismo positivistico a cui si opponeva, formulava l’idea di una natura pura a cui il soprannaturale si aggiungeva in modo del tutto esteriore. Una delle conseguenze di questa impostazione era l’incapacità di raccogliere la sfida dell’esistenzialismo, la corrente più significativa del 900 filosofico, con le sue domande sul senso dell’Essere e del Nulla. L’esistenzialismo affermava il primato dell’esistenza sull’essenza, chiedeva prove che avevano a che fare non tanto con dimostrazioni logiche quanto con la testimonianza, la fede, l’affezione, la libertà. Portava in primo piano la prospettiva di Pascal, una prospettiva disconosciuta dagli autori della Cattolica con l’eccezione del grande Adriano Bausola.

Il mancato confronto con l’esistenzialismo significava due cose: l’incapacità di valorizzare la tematica (agostiniana) del desiderio e la distanza tra l’Università milanese e la sensibilità contemporanea. In ciò la Cattolica condivideva la prospettiva che animava la quasi totalità delle Università ecclesiastiche. Il mondo intellettuale cattolico rappresentava una sorta di trasposizione del Medio Evo scolastico nel mondo odierno con il risultato, inevitabile, di creare un mondo chiuso, separato, protetto. Incapace, perciò, di misurarsi con le sfide del tempo postbellico. Con il risultato che tu esprimi bene allorché scrivi: «Il desiderio era come indirizzato fuori dalla Fede. La Fede era una specie di dovere magari bellissimo ma non desiderato, perché quello che si desiderava era in realtà di diventare come gli altri, anzi, l’avversione per la modernità nascondeva (ancora per poco) una specie di invidia per il mondo».

Non si poteva dire meglio. Se il cuore e la ragione non trovavano attuazione in una fede vissuta e sperimentata come dimensione di rinnovamento umano, se Cristo appariva solo come soggetto di devozione “religiosa”, era poi inevitabile che il desiderio trovasse altrove la sua soddisfazione. Quello che i giovani cattolici degli anni ‘60-’70, i giovani studenti della Cattolica di allora desideravano era di essere come gli altri, come i loro coetanei, moderni ed emancipati, amanti del benessere, del piacere, della vita. Il modello americano spazzava via l’antimoderno cattolico, il chiostro chiuso, e dimostrava tutta l’impotenza di un pensiero cattolico “separato”, incapace di misurarsi con la storia. Da qui la tua giusta impressione che «la Fede fosse come una specie di amato, venerato ingombro, un masso sulla strada, che si poteva pregare ma che restava un masso sulla strada». Se la fede è un “masso” sulla via della vita allora è inevitabile l’”invidia per il mondo” e, prima o poi, l’abbandono della pietra d’inciampo. E’ questo processo “psicologico” che spiega l’abbandono della Chiesa da parte di migliaia di giovani cattolici nel passaggio cruciale dagli anni ‘60 agli anni ‘70. Il cattolicesimo appariva “vecchio” e la fede era antiquata. Un giovane “moderno” non poteva essere credente, cristiano. Dall’antimoderno si passava, per rovesciamento dialettico, al modernismo, al secolarismo, all’idea che l’età adulta coincidesse con la fine delle regole, della tradizione, delle fantasie religiose. La crisi della Chiesa nel post-Concilio non è causata dal Concilio Vaticano II. Il Concilio ha raccolto la sfida che il ’900 ha posto alla Chiesa ed ha risposto a questa con un grande lavoro critico teso a distinguere, nel dialogo con il mondo moderno, positivo e negativo. Ha tentato anche di configurare una identità cristiana in grado di raccogliere questa sfida ma questo avrebbe richiesto la formazione di almeno una generazione. Mancando questa, difettando una generazione in grado di vivere “cristianamente” dentro la modernità, la “crisi” è esplosa. È bastato che si aprissero le porte, che i cattolici entrassero nella storia, perché tutta la fragilità di un pensiero e la mancanza di un’esperienza autentica della vita cristiana manifestassero i loro effetti. Aperte le porte i cattolici si sono divisi: progressisti contro tradizionalisti. Una dialettica che divide ancora, drammaticamente, il cattolicesimo contemporaneo. L’illusione dei tradizionalisti sta nel pensare che la risoluzione della crisi ecclesiale odierna stia nel ritorno al passato, al mondo preconciliare. Propongono di ritornare al modello che è causa dell’inevitabile reazione modernista. Ciò che i conservatori non comprendono è che non si può vivere in un mondo chiuso, separato. Le oasi sono prigioni e il cristianesimo necessita di libertà. Le illusioni dei progressisti risiedono, d’altra parte, nel pensiero che la crisi si risolva con continui aggiustamenti calibrati sullo spirito del tempo. Come tu scrivi: «quasi che il problema della Fede fosse un problema di comunicazione, un problema sociologico. Le chiese sono piene di preti che parlano più di “generatività” e di “cambio di paradigma” che di Gesù Cristo».

Come dici tu, il discorso sarebbe ancora lungo e conviene fermarsi. La domanda sul «che fare?» la riserviamo ad un colloquio personale. Grazie di questo scambio di idee che la tua lettera ha permesso.

Un abbraccio grande

Massimo

1 pensiero su “Le chiese vuote e l’Università Cattolica. Dialogo con Luca Doninelli”

  1. Sono un anziano sacerdote che ha pubblicato un mese fa un lungo libro intitolato “Laicità e critianesimo. Rivisitare il rapporto tra natura e grazia per una maggiore efficacia culturale” (Ed. Apes, Roma 2021) in cui il tema da lei trattato nell’articolo e nel blog viene esaminato sia con una metafsica rinnovata, aperta alla storia e all’esitenzialismo, sia con un confronto serrato con la teologia prevalente, di steampo fideistico. Si tratta di allargare la ragione per reggere i legami relazionali, i problemi di amore, di senso, di sofferenza. Sono d’accordo con Luca per quanto riguarda l’esito della Università Cattolica e il vuoto di pensiero e di cultura antoropologica tra i cattolici. Ma occorre anche esaminare l’unico modo di proporre una nuova evangelizzazione che riporti il Vangelo nel mondo attraverso una chiesa rinnovata in senso carismatico. Come dice nell’articolo per alcuni decenni l’unica vera speranza era riposta nei movimenti. Ma occorre dire che la chiesa istituzionale non ha colto l’aiuto che lo Spirito Santo offre sempre, attraverso fondatori che sanno proporre il Vangelo in modo credibile. Non si tratta di imitare i movimenti ma di capire che la chiesa istituzionale dovrebbe essere tutto a servizio del carisma, della comunione trinitaria inaugurata a Pentecoste. Dopo il Concilio Paolo VI, tutti i vescovi e metà dei sacerdoti erano impegnati a rinnovare l’Azione cattolica, che da comunione primaria prima della guerra era degradata in comunione secondaria, quella dell’associazionismo. E non ci sono riusciti. Un siingolo sacerdote, don Giussani, in pochi mesi ha smosso decine di migliaia di giovani in un cammino di santità in cui donarsi per la vita a Cristo. Giovanni Paolo II ha creduto molto nelle realtà carismatiche, ma è mancata una riflessività sufficiente sul perché della loro efficacia, su come aprire la chiesa gerarchica al carisma, e su come portare avanti il carisma nel tempo. Ma soprattutto manca riflessività su come proporre il Vangelo a ciascuno che voglia ritenersi cristiano, con un vero atto generativo. Le esortazioni, i documenti del magistero, non cambiano nulla,; è l’appartenenza che decide dalla vita. Dai tempi di Costantino la chiesa istituzionale ha predicato il Vangelo ma ha offerto nella pratica solo un po’ di pratica religiosa, lasciando iil vangelo vivo nel conventi. E così il mondo non si è innamorato del vangelo: oggi c’è ben poco vangelo vivo nel mondo occidentale. Se insegno come educare i figli a chi figli non ne ha, è come predicare al vento. Prima della catechesi occrre il kerigma, porre di fronte ad una scelta di vita: cristiani non si nasce si diventa. Ma con il battesimo dei bambini, che di per sé è un grande bene, si è data una eterogenesi dei fini che ha portato al fatto che la stragrande maggioranza dei cristiani non ha mai operato una vera scelta di vita. Occorre una proposta vocazionale legata al battesimo, possibile in ogni stato di vita, proposta che io chiamo atto generativo.. Gesù ha chimato Matteo quando era pubblicano indifferente alla legge di Mosè. Poi lo ha istruito. Tutti i documenti del magistero mancano dell’atto generativo e rimangono esortazioni ben presto dimenticate. I fondatori (ma anche gli ideologi, le sette, le comunità evangeliche lo hanno trovato a modo loro e con grande efficacia) hanno di fatto operato un atto generativo, Chiara Amirante ha suscitato centinaia di migliaia di Cavalieri della luce, molti tratti dalla droga. Non si può pensare che dipenda dal carisma del fondatore, perché il vangelo è lo stesso per tutti e il vero fondatore è Gesù.
    Capisco che qui non si può andare a fondo sul problema del rinnovo della fede. Se gradisce le posso inviare una copia del mio libro, basta che mi indichi un indirizzo postale. Eventualmente sul tema della nuova evangelizzazione può consultare il mio sito web: http://www.ugoborghello.it
    Cordialmente, don Ugo Borghello

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