Miguel Gotor (nella foto), con cui ho avuto il piacere di dialogare nei mesi scorsi, ha rilasciato una bella intervista alla rivista online Forward intitolata intitolata I confini dell’umanità. Toccare gli estremi per tornare vicini. Ne propongo un’ampia parte qui di seguito. A questo link un profilo di Gotor, professore di Storia moderna all’Università di Torino.
DOMANDA: Se il dialogo e il confronto sono strumenti non rinunciabili per avvicinare il prossimo, che spazio ha il conflitto nella riflessione di Papa Francesco?
RISPOSTA: Premesso che non sono un esperto né, ovviamente, un interprete del pensiero di Papa Francesco, che, sulla scorta della lettura del bel libro del professor Massimo Borghesi, mi pare avere uno spessore teologico e delle implicazioni dottrinarie che sarebbe sbagliato sottovalutare, credo di avere compreso che per Papa Bergoglio la realtà del conflitto non può essere rimossa, ma l’impegno deve essere quello di ricercare sempre un’unità tra gli opposti. Si tratta di un pensiero forte basato sulla consapevolezza della drammaticità della storia e della natura paradossale del cristianesimo, in cui il figlio di Dio è anche integralmente uomo, che muore nella disperata e creaturale consapevolezza di essere stato abbandonato dal Padre.
La sintesi finale spetterà a Dio, ma intanto, nella vita di quaggiù, bisogna abbracciare un pensiero polare ottimistico, che cerca di valorizzare gli elementi di unità e non quelli di divisione. Questa dottrina dell’unità degli opposti si trova già negli scritti del fondatore dei gesuiti Ignazio di Loyola, percorsi come sono da una continua polarità tra la grazia divina e la libertà dell’uomo, ed è stata riproposta nel corso del Novecento da due teologi molto importanti nella formazione di Bergoglio, il francese Henri de Lubac e l’italo-tedesco Romano Guardini, al cui studio del pensiero il futuro pontefice pensò di dedicare la sua tesi di dottorato in teologia. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria la predisposizione al dialogo in cui emerge la formazione e l’identità gesuita di questo Papa. Per un gesuita la propria identità non è una fortezza da difendere, ma un ponte verso gli altri, che sono tanto più interessanti quanto da lui distanti. In questa visione il dialogo diventa un metodo che si fa sostanza: non significa, ovviamente, rinunciare ai propri convincimenti, ma pensare che una verità figlia del confronto con l’altro sia più larga e inclusiva e, quindi, maggiormente fondata. In un gesuita l’identità e il dialogo non sono mai dimensioni contrapposte perché la verità non è un ciondolo da esibire, ma il prodotto di una ricerca che si arricchisce mediante la ricerca stessa. Questa inclinazione al dialogo deriva dalla natura missionaria ed esplorativa dei gesuiti, un abito mentale che li ha fatti diventare degli specialisti delle terre vergini, che fossero i continenti sconosciuti da cristianizzare, i territori interiori di un fanciullo da educare o la coscienza di una persona da penetrare con la confessione.
DOMANDA: L’impegno deve essere quello di ricercare sempre un’unità tra gli opposti.
RISPOSTA: Nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti”, Papa Francesco illustra bene questa attitudine curiosa proprio nel paragrafo dedicato al “Dialogo e all’amicizia sociale”, quello in cui spiega una semplice verità, ossia che “la vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita” riprendendo un verso del poeta e cantautore brasiliano Vinícius de Moraes. L’esistenza – aggiunge – è un poliedro dove il tutto è superiore alle singole parti e ciò obbliga a includere i marginali e le periferie “perché nessuno è inutile, nessuno è superfluo”.