Quando si confonde tra regno di Dio e regno di Cesare

CD_Avgustin_Carpaccio_2[1]Teologia politica e teologia della politica. Sembra quasi la stessa cosa. Invece la differenza c’è, ed è essenziale. Nel primo caso la religione non distingue, come invece accade nel Nuovo Testamento, tra il Regno di Dio e quello di Cesare. «Essa unifica i due Regni in uno», spiega Massimo Borghesi in un’intervista a IlSussidiario.net, «la Chiesa diviene Stato, la politica si trasforma in religione». E le conseguenze – ne abbiamo tanti esempi anche a casa nostra – sono preoccupanti.

 

Il testo integrale dell’intervista sul sito IlSussidiario.net.

 

IlSussidiario.net, lunedì 11 novembre, Cesare & Dio/ Borghesi: ecco il “patto” che unisce Ratzinger a Bergoglio (F. Cividini)

 

Domani sera (Centro culturale di Milano, via Zebedia 2, ore 21) Massimo Borghesi parteciperà ad un incontro che si strutturerà come un dialogo, cui prenderanno parte anche Antonio Polito e Alessandro Banfi, intorno al suo ultimo libro Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (Marietti, 2013) che tematizza il rapporto che deve intercorrere tra fede e politica perché queste siano fattori della costruzione del bene comune. In attesa dell’incontro, ilsussidiario.net gli ha rivolto qualche domanda.

“Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana” è un sottotitolo che potrebbe quantomeno intimidire alcuni lettori. Il libro che lei getta in campo è invece un articolato giudizio culturale che tocca la concezione della fede e della vita nel mondo sia dell’occidente che del vicino oriente. Professor Borghesi, che cosa più le preme che arrivi al lettore?

È la prima parte del titolo del volume che precisa l’argomento: Critica della teologia politica. Con esso si intende il rifiuto di quella confusione tra religione e potere che ha caratterizzato il mondo dopo l’11 settembre 2001. Una deriva integralista, particolarmente evidente nei Paesi dell’islam, ma anche nell’induismo nazionalista in India, a cui l’Occidente ha risposto, con l’amministrazione Usa di George Bush, con la reazione teocon, una sorta di alleanza guerriera cristiano-occidentale in funzione anti-islamica. In tutti questi casi siamo di fronte ad una politicizzazione della religione a cui in Europa si risponde -erroneamente – invocando la sua “privatizzazione”, la sua esclusione dalla scena pubblica.

“Teologia politica” sembra un termine desueto: che cos’è ed è qualcosa di presente ancora oggi nei nostri modi di vivere?

La “teologia politica” non è la teologia della politica. Nel secondo caso il rapporto tra i due momenti è indiretto, mediato, dall’etica, dal diritto, ecc. Nel primo la religione non distingue, come accade nel Nuovo Testamento, tra il Regno di Dio e quello di Cesare. Essa unifica i due Regni in uno, la Chiesa diviene Stato, la politica si trasforma in religione. È ciò che accade nei modelli teocratici, passati e presenti; nel cesaropapismo, laddove lo Stato diviene confessionale; nelle religioni politiche rappresentate dal totalitarismo moderno.

Una visione religiosa autentica della politica che tratti deve avere? Molti Stati si danno un contenuto di valori. C’è una religione laica che si impone nella vita della società forse per supplire al vuoto?

La teologia della politica indica l’orizzonte in cui i credenti, i cristiani in particolare, collaborano con gli altri uomini nel perseguimento del bene comune della società. In ciò essi apportano valori ed ideali di umanità e di solidarietà che, nell’attuale momento storico contrassegnato dal nichilismo e dall’individualismo radicale, sono essenziali per la stessa sussistenza del modello democratico. La religione della laicité, così come viene praticata nella Repubblica francese, non è in grado di supplire a tale funzione. Si rivela solo un modello totalizzante, una forma laica di teologia politica fortemente intollerante.

Una chiara “divisione dei compiti” tra potere, Stato, istituzioni e Chiesa, lo stesso Agostino -come spiegato all’interno dell’opera – non fu sempre lineare nel definirla. Quali sono stati, e quali sono, i frutti di un eventuale travisamento di tale distinzione?

Agostino fino al 404/05, conformemente all’Editto di Costantino del 313, è un chiaro fautore del principio di libertà religiosa per tutti, cristiani e pagani. Poi, dopo tale data, si adegua alle leggi dell’imperatore Onorio che vietavano l’esistenza della setta cristiana dei seguaci di Donato. Accetta, cioè, che le leggi dello Stato intervengano nel vietare una forma di credenza-appartenenza religiosa. Aderisce, in tal modo, al modello teodosiano (non costantiniano) dell’impero romano-cristiano sancito dall’Editto di Tessalonica del 380. Da qui sorge l’agostinismo politico medievale, l’idea teocratica o cesaro-papista dei rapporti tra Chiesa e Stato. Un modello che non riconosce il principio della libertà religiosa. Con ciò però, come mostro nel mio volume, la quaestio agostiniana non è affatto chiusa. L’Agostino che scrive la Città di Dio, dopo il sacco di Roma dei goti di Alarico nel 410, è un Agostino che ritrova lo spirito liberale dei Padri, quello che contrassegna i primi quattro secoli dell’era cristiana. La città di Dio, nella sua distinzione tra le due città, tra la religione e il potere, opera la prima critica della teologia politica. Il suo modello “laicale” dello Stato ha un valore paradigmatico anche per noi, oggi.

Perché la distinzione proclamata nel Post-concilio portò alla residuità della vita della fede? Cosa invece il Concilio diceva e auspicava?

Il Concilio ha, tra le altre cose, il merito di aver riconosciuto, nel documento Dignitatis humanae, il fondamentale principio della libertà religiosa. Con ciò veniva chiuso un capitolo di scontro frontale tra la Chiesa e la modernità e se ne apriva un altro fatto di dialogo e di confronto. Merito del Concilio è di aver restituito alla Chiesa, fuori dall’orizzonte clericale e dalle nostalgie del passato, quella libertà di movimento e di orizzonte propria dei primi secoli. Il Vaticano II relativizza il modello medievale e torna al quadro Patristico. E’ in questo ritorno che diviene possibile il dialogo con il moderno. Che poi nel post-Concilio questo dialogo sia stato inteso, da una teologia piena di complessi d’inferiorità, come “modernizzazione” di un cristianesimo, concepito come antiquato e polveroso, questa è un’altra storia.

Pensando ad oggi, ritiene che Ratzinger e Bergoglio stiano interpretando nel modo giusto il ruolo politico che dovrebbe recitare la Chiesa?

Il filo rosso che unisce Ratzinger e Bergoglio è la critica alla teologia politica, il senso patristico della distinzione degli ambiti tra ciò che è di Dio e ciò che dell’uomo, tra la fede e il potere mondano. Entrambi reagiscono al processo di mondanizzazione che ha caratterizzato la Chiesa nel corso degli ultimi decenni: il carrierismo ecclesiastico, la pedofilia, gli scandali finanziari, ecc. Sia l’agostiniano Ratzinger che il francescano Bergoglio desiderano una Chiesa più evangelica, più povera, in grado di incontrare gli uomini, diffidenti ed ostili, per le strade del mondo.

Come mai secondo lei uno Stato cattolico come la Repubblica d’Irlanda istituirà prossimamente l’ora di “ateismo” a scuola? La tensione tra le due cose (Stato cattolico-educazione ateistica) è solo apparente o vi è sotteso un fenomeno più profondo?

Non esistono più, ed è un bene, Stati “cattolici”. In Irlanda lo scandalo della pedofilia del clero ha consumato fortemente la credibilità dell’istituzione ecclesiastica. La Chiesa dovrà essere umile e tornare a sporcarsi le mani dentro le contraddizioni e le attese del popolo per riguadagnare consenso. Per il resto che lo Stato assuma connotati “francesi” è, purtroppo, il trend del momento, del Nord Europa in particolare. A questo livello, di difesa di una concezione liberale dello Stato contro la religione laicistica, totalitaria, è bene che la Chiesa non sia lasciata sola. E nemmeno che sia in prima linea. E’ compito innanzitutto dei laici liberali, credenti o non credenti, intervenire nella vita pubblica per tutelare le libertà e i diritti fondamentali per tutti.

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