Ratzinger ed Erik Peterson con Agostino: il rifiuto della teologia politica

Con questo articolo ospitato da IlSussidiario.net del 4 gennaio ho voluto far luce su un aspetto poco ricordato in questi giorni – ma in generale non tra i più indagati – del pensiero di Joseph Ratzinger, circa il rapporto tra fede e potere, e del debito su questo tema del futuro papa verso Erik Peterson (nella foto), la cui lettura di sant’Agostino è stato un punto di riferimento costante del suo pensiero.

IlSussidiario.net, mercoledì 4 gennaio, JOSEPH RATZINGER/ E Peterson: critica della teologia politica, in compagnia di Agostino (Massimo Borghesi)

Sotto l’influsso di Erik Peterson, Joseph Ratzinger pervenne al rigetto di ogni forma di teologia politica. In linea con Agostino

Nel 1935 Erik Peterson, noto teologo protestante tedesco, pubblica Der Monotheismus als politischer Problem. L’obiettivo critico del volume era dato dall’adesione dei “Deutsche Christen” della Chiesa evangelica al nazionalsocialismo, nel 1933, nonché dalla Politische Theologie di Carl Schmitt, uno dei più importanti intellettuali cattolici divenuto nazista.

Di fronte al cortocircuito tra cristianesimo e nazionalsocialismo, Peterson, richiamandosi ad Agostino – “Sant’Agostino, che s’incontra a ogni crocevia spirituale e politico dell’Occidente, aiuti con le sue preghiere i lettori e l’autore di questo libro!” (E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983, p. 29) – operava la delegittimazione di ogni possibile teologia politica. Questa, dipendente dalla concezione ellenica della monarchia divina, passata attraverso Filone a parte dell’apologetica cristiana antica, opera una giustificazione teologica del potere mondano consacrandolo nella sua assolutezza. La sua espressione più chiara, in sede cristiana, era data da Eusebio di Cesarea, il vescovo di Costantino vicino all’arianesimo, nel quale universalismo cristiano e universalismo romano, Chiesa e impero, Cristo e l’imperatore, si saldano senza residui.

Quando Peterson pubblica il suo testo è già da tempo in Italia, per la sua opposizione al nazismo, a Roma dove diviene cattolico. La sua opera – e non solo Der Monotheismus – avrà una grande influenza su figure chiave del pensiero europeo. Tra esse v’è Joseph Ratzinger il quale ricorderà: “Ho scoperto per la prima volta la figura di Erik Peterson nel 1951. Allora ero cappellano a Bogenhausen [un sobborgo di Monaco] e il direttore della locale casa editrice Kösel, il signor Wild, mi diede il volume, appena pubblicato, Theologische Traktate. Lo lessi con curiosità crescente e mi lasciai davvero appassionare da questo libro, perché lì c’era la teologia che cercavo: una teologia che impiega tutta la realtà della ricerca storica per comprendere e studiare i testi, analizzandoli con tutta la serietà della ricerca storica, e che non li lascia rimanere nel passato, ma che, nella sua investigazione, partecipa all’autosuperamento della lettera, entra in questo autosuperamento e si lascia condurre da esso e così viene in contatto con Colui dal quale la teologia stessa proviene: con il Dio vivente. E così lo iato tra il passato, che la filologia analizza, e l’oggi è superato di per se stesso, perché la parola conduce all’incontro con la realtà. E l’attualità intera di quanto è scritto, che trascende se stesso verso la realtà, diventa viva e operante. Così, da lui ho imparato, in modo più essenziale e profondo, che cosa sia realmente la teologia e ho provato perfino ammirazione, perché qui non si dice solo ciò che si pensa, ma questo libro è l’espressione di un cammino, che era la passione della sua vita” (Benedetto XVI, Ai partecipanti al simposio Internazionale su Erik Peterson – 25 ottobre 2010, in AA.VV., Erik Peterson. La presenza teologica di un outsider, a cura di G. Caronello, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2012, pp. 18-19).

La teologia di Peterson, la sua lettura di Agostino, diverrà un punto di riferimento essenziale per Ratzinger, e questo nonostante il fatto che nel suo primo lavoro dedicato ad Agostino, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, del 1954, Peterson non sia citato. Nondimeno nelle poche pagine dedicate al rapporto tra Chiesa e Stato vi è un’evidente coincidenza con la prospettiva petersoniana. Scrive Ratzinger: “Del tutto in antitesi con il punto di partenza di Ottato, Agostino quindi ha praticamente preso come base la situazione della Chiesa delle catacombe quando ha progettato la sua determinazione del rapporto tra Chiesa e Stato. La Chiesa non appare ancora per nulla come elemento attivo in questo rapporto, l’idea di una cristianizzazione dello Stato e del mondo non appartiene decisamente ai punti programmatici di sant’Agostino (J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano 2011, p. 313).

Di fronte alla lettura di von Harnack, per il quale la pax terrena, in Agostino, può nascere solo dalla giustizia in possesso della Chiesa, Ratzinger obietta che “di subordinazione dello Stato alla Chiesa non si può parlare in nessun passo di Agostino” (ivi, p. 314). I testi chiariscono che “Agostino non ha stretto nessun intimo patto con lo Stato, bensì che gli si è opposto assumendo quel comportamento che era eredità cristiana delle origini: sopportarlo pazientemente così come esso è, non tentare di mutarlo, poiché è fuori delle possibilità cristiane” (ibidem).

Se nell’opera del ’54 Ratzinger non cita Peterson, il suo nome è invece ben presente in Das neue Volk Gottes, del 1969, e, soprattutto, in Die Einheit der Nationen, del 1971. Qui l’opera di Peterson, non limitata a Der Monotheismus, è indicata a più riprese e in contesti essenziali. Il testo, che ruota attorno “a due grandi figure, Origene e Agostino” (J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia 2009,  p. 15), è mosso dall’interesse verso la “teologia politica” la quale, nel contesto degli anni Sessanta-Settanta,  aveva come punto di riferimento l’opera di Johann Baptist Metz Zur Theologie der Welt, edita nel 1968.

Questa, anche se Ratzinger non lo afferma esplicitamente, trovava una sua analogia con la posizione origeniana per la quale “l’elemento cristiano qui è concepito totalmente in funzione della radicalità del fattore escatologico, che rivoluziona il mondo e non si dà affatto pena neppure di dissimulare o di smentire questo suo carattere rivoluzionario” (ivi, p. 65). Per esso il cristiano rifiuta gli uffici politici, il servizio militare, così come, a certe condizioni, può congiurare contro il tiranno e defezionare dalle sue leggi. In tal modo, nonostante sia rimasto di fatto cristiano-ecclesiale, “Origene senza dubbio nella radicalità del suo ethos rivoluzionario si è spinto sino a giungere a stretto contatto con i confini della concezione gnostica, con la sua negazione per principio degli ordinamenti naturali” (ivi, pp. 65-66). Diversa è la posizione agostiniana. Essa desacralizza gli ordinamenti politici senza destituirli però del loro significato proprio: la custodia dell’ordine del mondo. Per Agostino “tutti gli Stati di questa terra sono ‘stati terreni’, anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono Stati su questa terra e quindi ‘terreni’ e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo Stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente del suo perdurare” (ivi, pp. 102-103).

Quest’amore non giunge però, come in Eusebio, all’identificazione tra cristianesimo e Impero romano. Questi “equivoca l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico e così gli toglie la sua vera e propria grandezza” (Ivi, p. 110). Ratzinger, che cita qui Der Monotheismus, integra Peterson con Endre von Ivanka, il quale “rimanda segnatamente alle componenti veterotestamentarie dell’idea bizantina di impero, che non potrebbe affatto essere intesa semplicemente come prosecuzione cristiana della concezione dell’impero divino dei pagani” (ivi, p. 111, nota 17). All’opposto di Eusebio, “presso Agostino l’elemento di novità cristiana è mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad una ‘ecclesializzazione’ (Verkirchlichung) dello Stato né a una ‘statalizzazione’ (Verstaatlichung) della Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine” (ivi, p. 111).

Ciò porta a constatare che “Agostino non ha tentato di elaborare qualcosa da intendere come la costituzione di un mondo fattosi cristiano. La sua civitas Dei non è una comunità puramente ideale di tutti gli uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena, con un mondo costituito cristianamente, bensì è un’entità sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo futuro” (ivi, p. 113).

Questa distinzione permette ad Agostino di sfuggire la doppia limitazione che sorge dalle “teologie politiche” di Origene e di Eusebio. “Così per lui lo Stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase ‘Stato terreno’ e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le realtà terrene, ma non è a casa propria in esse” (ivi, p. 114). L’escatologismo agostiniano rimane rivoluzionario e legale ad un tempo. “Mentre dunque in Origene non si vede bene come questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene tanto giusta per quest’epoca del mondo, da desiderare un rinnovamento dell’Impero romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo un’entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione cristiana, ma lascia che esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio relativo ordinamento. In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi in modo consapevole legale, rimane, in un senso ultimo, ‘rivoluzionario’, poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le realtà immanenti al mondo” (ivi, pp. 114- 115).

Joseph Ratzinger dissocia, in tal modo, il modello del De civitate Dei dall’agostinismo politico medievale. Lo stesso Dio che guida le sorti della Roma pagana è il medesimo che guida, secondo disegni che non coincidono con la logica del “Dio degli eserciti”, la Roma degli imperatori cristiani. La “tesi direttiva della teologia politica di Agostino: Ipse (=Deus) dat regna terrena” (ivi, p. 90) sta, quindi, in aperto contrasto con la “teocrazia politica” (ivi, p. 110) di Eusebio di Cesarea. È l’unica volta che Ratzinger utilizza nel saggio del 1971, riferendosi ad Agostino, il termine di “teologia politica”. Successivamente esso verrà definitivamente abbandonato. Nel saggio del 1984 Christliche Orientierung in der pluralischen Demokratie? scriverà che “Il cristianesimo, in contrasto con le sue deformazioni, non ha fissato il messianismo nel politico. Si è sempre invece impegnato, fin dall’inizio, a lasciare il politico nella sfera della razionalità e dell’etica. Ha insegnato l’accettazione dell’imperfetto e l’ha resa possibile. In altri termini il nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica” (J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987, p. 201. Corsivo nostro).

L’affermazione mostra la profonda consonanza della posizione di Ratzinger con quella di Peterson. Il cristianesimo si oppone alla identificazione tra “regno di Dio” e programma politico. Esso ribadisce che “La politica non è la sfera della teologia, ma dell’ethos, che certo si può in ultima analisi fondare solo teologicamente. Proprio in questo modo il Nuovo Testamento rimane fedele alla sua negazione della giustizia che viene dalle opere, poiché la teologia politica nel senso rigoroso della parola afferma che la compiuta giustizia del mondo dev’essere prodotta dalla nostra opera, che la giustizia nasce come opera e unicamente così. Essa è fattibile e viene fatta. Dove invece lo Stato viene fondato sull’ethos, l’uomo è interamente preso dal dovere, ma ciò che è di Dio resta di Dio. La derivazione della giustizia statale dall’ethos e non dalle strutture significa l’accettazione dell’imperfezione dell’uomo. Essa è umanamente realistica, cioè ragionevole e teologicamente vera. La negazione delle opere non è diretta contro la morale, ma soltanto la perseveranza nella morale resta fedele a questo dato fondamentale del Nuovo Testamento. Il coraggio della razionalità, che è coraggio dell’imperfezione, ha bisogno della promessa cristiana per poter reggere al proprio posto. Questa promessa protegge dal mito, protegge dall’entusiasmo e dalle sue promesse illusoriamente razionali” (ivi, p. 202).

 

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