Il 21 settembre è morto, a 89 anni, Michael Lonsdale, il grande attore protagonista de “Il nome della rosa” e di “Uomini di Dio”. Lo avevo incontrato nel febbraio 2016 al Centro Saint Louis a Roma. Nella foto Lonsdale con Brigitte ed Anne Facérias, la responsabile della “Diaconia della bellezza”, luogo di incontro tra artisti e fede di cui Lonsdale era presidente. Per il mensile Jesus lo aveva incontrato qualche anno fa Piero Pisarra. Ripropongo qui sotto l’articolo da Jesus n. 7 luglio 2014.
L’ALCHIMIA TRA FEDE E BELLEZZA
di Piero Pisarra
Il cattivo di James Bond. L’abate del Nome della rosa. Il capofamiglia mafioso in Munich di Steven Spielberg… Michael Lonsdale è tra i volti più noti del cinema internazionale. Nella sua lunga carriera, ha interpretato più di centotrenta film e girato con i più grandi registi, da François Truffaut a Orson Welles, da Luis Buñuel a Joseph Losey e, di recente, Ermanno Olmi. Tra gli attori simbolo della Nouvelle vague – la nuova ondata che spazzò via il frivolo e borghese «cinema di papà» e inventò una nuova grammatica – è forse il più versatile, a suo agio nei ruoli di intellettuale tormentato e di grande aristocratico, di clochard e di gangster, di prete e di diavolo (in un adattamento dei Fratelli Karamazov). Eleganza dei modi, sguardo sornione, voce che sembra un sussurro e che affascina per l’assenza di ogni leziosaggine, Lonsdale ha fatto della sobrietà l’elemento chiave del suo stile. Amico di Samuel Beckett e di Marguerite Duras, anche per lui – come per i due scrittori – l’economia dei mezzi è la qualità principale. Capita di vederlo nella chiesa parigina di Saint-Séverin, in pieno Quartiere latino, e di ascoltarlo mentre legge le letture domenicali con quel modo in apparenza dimesso e che invece restituisce a ogni parola il suo giusto peso.
Lonsdale non fa mistero della sua fede. «So che molti attori non amano parlare di queste cose, di Dio o della vita interiore, ma se la fede è un dono, essa dev’essere proclamata e condivisa. È un tesoro che non si può conservare in maniera egoistica soltanto per sé stessi», mi dice. «Alcuni, pur profondamente credenti, non ne parlano per pudore. Penso a Michel Serrault che volevo invitare a un raduno del Rinnovamento carismatico a Parayle-Monial, in Borgogna: “Ma no…”, diceva. “Non appena mi vedranno, si metteranno a ridere… Sono soltanto un attore, comico, per di più”».
Qualcosa è però cambiato negli ultimi tempi. «Sì, è caduto il muro di Berlino, con molte conseguenze anche nel nostro campo. Ora è più facile dirsi cristiani. Ma non si tratta di gridare ai quattro venti la propria appartenenza alla Chiesa cattolica o la propria fede. È il modo di fare il mio mestiere che deve testimoniare di ciò che conta davvero per me. In fondo l’attore è come un “traghettatore”, un “interprete” nel senso pieno della parola, una persona che si sforza di far ascoltare e comprendere le parole di un altro. È uno che ha la fortuna di vivere molte vite».
In un libro pubblicato da poco, Jesus, j’y crois (edizioni Bayard, 2013), Lonsdale racconta il suo cammino di conversione e l’incontro, da adulto, con alcune grandi figure del mondo cattolico, i domenicani Ambroise-Marie Carré e Raymond Régamey.
«Ho ricevuto il battesimo a ventidue anni. Ero in ricerca, anche se non sapevo ancora di che cosa. Parlai delle mie inquietudini con padre Régamey, di cui avevo ascoltato una conferenza. “Che cosa cerca?”, mi chiese. “Qualcosa di puro, di grande, di bello”, risposi. “Allora, lei cerca Dio”. Così, dopo un periodo da catecumeno con una madrina straordinaria, una donna che mi ha accompagnato nel percorso di fede fino alla fine della sua vita, ho ricevuto il battesimo. Piansi. Ero talmente felice quel giorno… La sera, tornato a casa, mi inginocchiai. Riuscivo a ripetere soltanto: “Sì, sì…”. Dio si era manifestato come un’evidenza…».
Due parole tornano spesso nei suoi libri, «incontro» e «fiducia». Lui non si stanca di ripetere che la fede nasce dall’incontro con una persona, Gesù, e da un atto di fiducia che si rinnova quotidianamente.
«Sì», mi spiega, fiducia in Gesù Cristo, che dice: “Io sono la via, la verità e la vita”. Alla mia età c’è una parola che più di tutte mi colpisce alla lettura dei Vangeli. È ciò che Gesù sulla croce dice al buon ladrone: “Tu sarai con me in paradiso”. Non sappiamo come sarà questo paradiso, ma ho fiducia nella promessa di Gesù».
A ottantatré anni (è nato a Parigi nel 1931, da madre francese e padre ufficiale dell’esercito britannico), Lonsdale è ancora nel pieno dell’attività artistica e in prima fila nell’impegno ecclesiale. «Ho scoperto il Rinnovamento carismatico con gioia», racconta. «La condivisione dell’esperienza di fede con fratelli e sorelle gentili, calorosi, preoccupati del prossimo, ha cambiato la mia vita. Sono in cammino con loro. Per molti anni ho fatto parte di un gruppo di preghiera con l’attuale vescovo di Tolone, monsignor Dominique Rey. Si chiamava Magnificat. Ora invece stiamo lanciando un’altra iniziativa chiamata Diaconia della bellezza, una serie di gruppi che considerano la bellezza e l’arte come un servizio, una diaconia indispensabile, appunto. Alcuni amici attori – Claude Rich, Brigitte Fossey, Catherine Salviat, della Comédie Française – mi accompagnano in questa avventura».
Nella memoria degli appassionati di cinema, la figura dell’attore è legata ai film di Buñuel (Il fantasma della libertà, del 1974) o di Truffaut (La sposa in nero, del 1967, e Baci rubati, del 1968). E alle interpretazioni dall’aria svagata e surreale di chi sembra di passaggio e che, invece, imprime in profondità il suo tocco e il suo stile.
Decisiva è stata la frequentazione di Marguerite Duras, la scrittrice e regista che fu tra i rappresentanti più noti delle avanguardie letterarie e del cosiddetto Nouveau roman. «C’è un film di Marguerite, India Song del 1975, che per me è una pietra miliare, una tappa importante. Ho lavorato spesso con lei, anche in teatro. In quel film, interpretavo il ruolo del viceconsole di Lahore innamorato pazzo della protagonista, una donna dai molti uomini. Per un pomeriggio intero, durante le riprese, ho potuto gridare il mio amore con parole meravigliose, è stata un’esperienza indimenticabile… Trascorrere un intero pomeriggio a pronunciare parole d’amore».
Ma la svolta, quasi l’inizio di una nuova carriera, è arrivata nel 2010 con Uomini di Dio (Des hommes et des dieux, di Xavier Beauvois) sui sette monaci di Tibhirine, assassinati nel 1996 durante la guerra civile che insanguinò l’Algeria. «È stata una grande fortuna interpretare frère Luc, monaco e medico della piccola comunità di trappisti che ha dato tutta la sua vita per i poveri, per i malati che curava senza risparmio, dalle sette del mattino alle dieci di sera. Spesso mi è capitato di calarmi nei panni di ecclesiastici o di religiosi, ma con frère Luc è stato diverso: il suo messaggio di amore mi ha folgorato».
Poi con Ermanno Olmi, per Il villaggio di cartone (2011), ha interpretato la figura di un vecchio prete a cui tolgono tutto, anche la chiesa, sconsacrata e destinata forse alla demolizione. E il vecchio prete scopre il nucleo della fede cristiana nell’accoglienza dell’altro, dei migranti ai quali un sistema poliziesco orwelliano dà la caccia. «È un film, quello di Olmi, sulla fine di un mondo e sul crollo delle certezze, un racconto di grande forza simbolica. Il vecchio prete, stanco, disilluso, si rivolge a Dio: “Dimmi che cosa devo fare”. E la risposta: “Occupati del tuo prossimo, ama il tuo prossimo”. Parole dirompenti e sempre nuove, capaci di sconvolgere la vita».
Nella conversazione con Lonsdale, torna spesso il tema della bellezza, quasi un leit-motiv al quale l’attore, sulla scia dei grandi teologi Paul Evdokimov e Hans Urs von Balthasar, ha dedicato i suoi libri, tra cui En chemin avec la beauté: les trésors de ma vie (Philippe Rey editore, 2012), sui tesori letterari e artistici che nutrono la sua meditazione. «C’è una singolare alchimia tra la bellezza e la fede», dice. «La bellezza è uno dei nomi di Dio. È l’armonia, l’emozione dei colori in pittura, il fascino di un silenzio abitato, la forza poetica di un testo sulla scena di un teatro, delle immagini in un film… Credo all’importanza della bellezza come via all’evangelizzazione. E da qualche anno anche nel mio lavoro teatrale le preoccupazioni religiose sono più esplicite». In Visites, visite (edizioni Pauvert, 2003), il libro più “autobiografico”, e nel già citato Jésus, j’y crois, racconta con pudore, quasi en passant, anche i drammi e le lacerazioni della vita, la morte della madre e di altre persone care. E le sue parole lasciano trasparire l’emozione: «L’arte trova spesso la sua origine in una ferita, in un’assenza. E non è raro che gli artisti siano dei ribelli, in ricerca. Attraverso l’arte – la pittura, la scrittura, il cinema… – cerchiamo di vincere il dolore, i dolori dell’esistenza, per far nascere un mondo migliore. La creazione è come un grido che trasforma la bruttezza in qualcosa di sublime. L’arte sradica il male per liberare la bellezza, per guarire, riconciliare, alleviare…».
Riconciliare e alleviare, anche interpretando il cattivo di James Bond o un viceconsole un po’ ridicolo che pronuncia parole d’amore.