Tre anni di papa Francesco, un pontefice consapevole che «il cristianesimo, in mondo sempre più neo paganeggiante, può riaccadere solo come “incontro”». Luca Marcolivio di Zenit.org ha intervistato Massimo Borghesi, in una lunga conversazione che in due puntate (poi riprese anche da Terredamerica.com) ha analizzato tutti gli aspetti del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Nell’intervista Borghesi si sofferma sulla pastoralità, sulla (presunta) discontinuità con i predecessori, e poi le riforme, la sensibilità alle tematiche ambientali, l’azione diplomatica, l’informalità del tratto e anche le critiche che sono giunte a papa Francesco soprattutto da alcuni ambienti all’interno della Chiesa. Uno il punto fermo, «il punto che Ratzinger e Bergoglio condividono con due grandi maestri ed educatori cristiani del XX secolo: Romano Guardini e Luigi Giussani. Se il cristianesimo, oggi come 2000 anni fa, riparte dall’“incontro”, e non dall’organizzazione, dalla militanza militante, dalla dialettica, ecc., allora la testimonianza è il primum. La ri-presentazione di Cristo nel mondo è, tanto per Benedetto quanto per Francesco, il compito essenziale della Chiesa nell’attuale contesto storico, il “primerea” fondamentale che il clericalismo dimentica dandolo per presupposto».
Zenit.otg, sabato 12 marzo 2016, int. a M. Borghesi, Dio sensibile al cuore: questo è il cristianesimo per Bergoglio (prima parte) (L. Marcolivio) (link )
Un pontefice che spariglia le carte in tavola, che elude tutti gli schemi ideologici e che, proprio per questo, è fortemente ammirato o, al contrario, aspramente criticato. Nei suoi tre anni di pontificato, tuttavia, papa Francesco non sta facendo altro che rimettere al centro la dimensione dell’incontro tra Dio e uomo, dalla quale stanno scaturendo numerose ed evidenti conseguenze anche a livello di magistero, di pastorale e di attività diplomatica della Chiesa. Lo ha sottolineato in un’intervista con ZENIT, Massimo Borghesi, professore ordinario di Filosofia Morale all’Università di Perugia. Borghesi è stato, in questi ultimi tre anni, uno dei più acuti “ermeneuti” del pontificato di Bergoglio, evidenziandone i contenuti ‘profetici’. Al tempo stesso Borghesi ha spiegato perché il papa argentino risulta così scomodo a molti, in particolare tra i cattolici…
A tre anni dalla sua elezione, papa Francesco rimane un grosso rompicapo per molti intellettuali ma soprattutto per gli irriducibili sostenitori della ideologie novecentesche. Non è “di sinistra” e non è “di destra”. La sua “pastoralità” e il suo linguaggio accessibile, lo rendono più vicino al popolo che alle élite ecclesiali o laiche. Lei, da filosofo, come ha imparato a inquadrare la sua figura?
Quello che lei dice è vero. Papa Bergoglio, sin dall’inizio del suo pontificato, ha mandato in crisi commentatori ed opinionisti, tale era ed è la novità del suo stile. Commentatori ed opinionisti che si sono affannati a trovare le “radici” del Papa latinoamericano per comprenderlo e, in molti casi, per poterlo criticare e delegittimare. Soprattutto una certa corrente conservatrice che, negli anni di Benedetto XVI, aveva tentato, senza riuscirci, di piegare l’immagine di papa Ratzinger ai propri desideri, ha accusato papa Francesco di “populismo”, peronismo, di essere un seguace della teologia della liberazione, ecc. Lo ha pure tacciato di “doppiezza gesuitica”, rispolverando le armi di un vetero-laicismo che, singolarmente, viene usato oggi dalla destra cattolica. In ciò si documenta una buona dose di ignoranza e di pregiudizio. Papa Bergoglio non è mai stato un filo-marxista. Semplicemente non è mai stato di destra. La sua “teologia del popolo” sorge, nel contesto dell’Argentina degli anni ’70, come risposta “cattolica” alla teologia della rivoluzione. Non si tratta di una posizione ideologica ma del radicarsi della fede nella mistica popolare, in una tradizione cristiana vivente, storica, che la Chiesa istituzionale non può disconoscere, pena rimanere astratta e formalistica. Il sensus fidei del popolo credente è un “luogo teologico”, così come i poveri sono i prediletti, coloro che Dio ama in modo speciale. La “teologia del popolo” è una risposta all’ideologismo, di destra e di sinistra, all’elitarismo di stampo illuminista, allo gnosticismo che riduce la fede a “dottrina”. Da qui sorgono conseguenze importanti. La prima è una concezione “carnale”, “fisica” del cristianesimo. Un popolo sorge da una relazione vivente, reale, non da una proposta astratta. Il cristianesimo, per sua natura, si comunica nella concretezza di del vedere-udire-toccare-abbracciare. Una conseguenza di ciò è la semplicità di un linguaggio, quello evangelico carico di esempi e di richiami, che non si limita ad istruire ma vuole anche coinvolgere il cuore. Vuole porre in una relazione reale Dio con coloro che ascoltano. Dio sensibile al cuore: questo è il cristianesimo per Bergoglio.
Un elemento controverso è la presunta discontinuità di Francesco con i suoi predecessori, quantomeno sul piano pastorale. È questa, a suo parere, una lettura corretta?
No. In realtà vi è un filo rosso, che collega Bergoglio a Ratzinger, ed è dato dalla percezione che il cristianesimo, in mondo sempre più neo paganeggiante, può riaccadere solo come “incontro”. Lo afferma la Evangelii gaudium al n 7, riprendendo un passo della Deus caritas est che al n°1 recita: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». Si tratta di un punto di convergenza importante perché, nella vita come nella fede, il punto di partenza decide su tutto. È il punto che Ratzinger e Bergoglio condividono con due grandi maestri ed educatori cristiani del XX secolo: Romano Guardini e Luigi Giussani. Se il cristianesimo, oggi come 2000 anni fa, riparte dall’“incontro”, e non dall’organizzazione, dalla militanza militante, dalla dialettica, ecc., allora la testimonianza è il primum. La ri-presentazione di Cristo nel mondo è, tanto per Benedetto quanto per Francesco, il compito essenziale della Chiesa nell’attuale contesto storico, il “primerea” fondamentale che il clericalismo dimentica dandolo per presupposto.
L’ottica pastorale dei due papi è, quindi, la stessa. Diverso è, semmai, lo stile. Il riserbo e la timidezza di Benedetto sono diversi dalla fisicità abbracciante di Francesco. Questa dimensione non è, in Bergoglio, un dato “caratteriale” ma il risultato di una percezione della fede che sorge dallo spettacolo del popolo credente nella geografia spirituale dell’America Latina. È quanto affermavamo prima. La fede si alimenta dentro un popolo, una comunità vivente, una prossimità reale. Al n°1 della Evangelii gaudium, Francesco scrive che: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualistica». Ecco: l’Occidente è viziato da una tristezza individualistica. In questo senso vi è indubbiamente una differenza tra Francesco e Benedetto, data dal superamento dell’ottica eurocentrica che domina la visione culturale di papa Ratzinger. Con Francesco entra in scena la prospettiva di una fede viva, attuale, radicata in un tessuto popolare e solidale, che alla senile Europa appare, illuministicamente, come il retaggio di un passato tramontato da lungo tempo.
Come valuta molte delle riforme o innovazioni di Bergoglio (ridimensionamento della Curia, sinodalità, attenzione alle ‘periferie’ e alla modernità), alla luce del Concilio Vaticano II?
Sono riforme che rientrano nella prospettiva aperta dal Concilio Vaticano II. Il ridimensionamento della Curia – la riforma più difficile! – presuppone una politica di risparmio e si muove in consapevole opposizione a quel processo di burocratizzazione ecclesiale, dominante negli ultimi decenni. La Curia deve ritrovare una snellezza nell’adempimento delle sue funzioni, evitando, per quanto è possibile, carrierismi e protagonismi che danneggiano seriamente il ministero petrino. La discrezione dell’attuale Segretario di Stato, da questo punto di vista, è esemplare. Altro tema di riforma è l’esercizio “sinodale”, la forma che deve assumere l’autorità nella Chiesa. Ne aveva parlato anche Benedetto XVI, in un’intervista alla Radio Vaticana del 5 agosto 2006, in cui auspicava un pontificato non monarchico. Il problema del superamento della forma “monarchica”, assolutistica del Papato, è al centro della riflessione a partire dal Vaticano II. Lo stesso dialogo con l’Ortodossia, culminante attualmente nell’abbraccio tra Francesco e Kirill, richiede un ritorno all’ottica ecclesiale del primo millennio. Per quanto riguarda l’incontro tra la fede e la modernità, Bergoglio non ha dubbi. Lo ha detto in più occasioni: il Concilio Vaticano II rappresenta l’incontro tra Chiesa e mondo moderno. Da qui non si torna indietro. Il che significa, innanzitutto, rifiuto della teologia politica, dell’uso politico della religione. Rispetto a Ratzinger la sfumatura diversa di Bergoglio, nel delineare il rapporto tra la fede e il moderno, sta nel fatto che il moderno non è solo quello europeo ma anche quello latino-americano. Un contesto in cui la secolarizzazione non ha portato alla “privatizzazione”, alla soluzione individualistica della fede. Dell’illuminismo europeo è salvata la chiara distinzione tra Chiesa e Stato il tema dei diritti e delle libertà. Viene invece rifiutato il suo elitarismo intellettualistico, il suo volto non popolare. In questo senso l’ottica della “periferia” corregge quella del centro. Si tratta, però, di una correzione, di un punto di vista privilegiato, non di una alternativa terzomondista all’Occidente. Chi interpretasse così papa Francesco errerebbe grandemente come bene ha evidenziato ultimamente Luis Badilla a TV2000. La visione di Francesco è “polare” ed una polarità fondamentale è quella tra “centro” e “periferia”.
Zenit.otg, domenica 13 marzo 2016, int. a M. Borghesi, Dio sensibile al cuore: questo è il cristianesimo per Bergoglio (seconda parte) (L. Marcolivio) (link )
Nel suo magistero sociale – che occupa una parte importante del suo pontificato – uno spazio nuovo ed originale è rappresentato dall’attenzione del Santo Padre per le questioni ambientali, ben sintetizzata nella Laudato si’. L’ecologia diventa per la prima volta oggetto di interesse da parte della Chiesa oppure, in tal senso, l’enciclica è più un punto d’arrivo, sia pure intermedio?
La enciclica Laudato sì è un documento che è stato molto contestato e poco letto. Contestato dalla destra liberal, soprattutto negli Stati Uniti, che ha visto nel testo un pericoloso attacco alla dottrina del laisser faire, del mercato libero da ogni limitazione etica e giuridica. In realtà nell’enciclica viene criticato, con forza, il “paradigma tecnocratico” che, nell’era della globalizzazione, domina incontrastato. È lo stesso paradigma che porta a valutare gli anziani, gli embrioni con patologie, i malati terminali, gli handicappati e i poveri in generale, come “scarti”, esseri inutili, non produttivi, pesi per la società. La devastazione ecologica di intere parti del pianeta è il frutto di un modello che, al contempo, è il medesimo che rifiuta l’umanità debole, non protetta. Questo duplice legame non è afferrato dalle correnti della destra cristiana che si battono contro aborto ed eutanasia, e tuttavia si dimostrano poi totalmente liberali in materia ecologica ed ambientale, subordinate agli interessi del neocapitalismo mondiale. Nella prospettiva delineata dal Papa invece il quadro si presenta unitario. Come afferma il n°117 della Laudato sì: «Quando non si percepisce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità – per fare solo alcuni esempi -, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. Tutto è connesso». Nella sua analisi del paradigma tecnocratico, come modulo dominante nell’economia degli ultimi decenni, Bergoglio si fa guidare dalla riflessione sul potere nell’era della tecnica svolta da un autore a lui caro, Romano Guardini. La Laudato si’ è ricca di citazioni guardiniane. Osserviamo, da ultimo, come la pregnanza della questione ecologica come problema planetario, emerge in Bergoglio dalla chiara consapevolezza che sono i Paesi della “periferia” ad esser divenuti, in Africa, America Latina, ecc., la pattumiera del mondo. Ciò che l’Occidente risparmia per sé, nella sua tutela della natura e dell’ambiente, non risparmia ai Paesi più poveri, luogo di sfruttamento indiscriminato delle risorse, di deforestazione, di inquinamento delle acque e dell’aria, di riciclaggio di materiali tossici. La questione ecologica tocca direttamente le periferie, le bidonville del pianeta, non i prati verdeggianti del mondo ricco.
Uno sguardo alla diplomazia vaticana: un grande successo di Francesco è stato l’aver messo pace tra Cuba e USA dopo più di 50 anni. Parallelamente sta lavorando sul fronte ecumenico catto-ortodosso (epocale il suo incontro con il patriarca Kirill), anche per salvare il Medio Oriente e dal baratro e i cristiani mediorientali dalla persecuzione. L’attività diplomatica del Papa a quale nuovo assetto geopolitico potrebbe portare?
Certamente tre questioni sono sul tappeto. La prima: sostenere il processo di distensione tra Est ed Ovest, tra la Russia e l’Occidente onde evitare di arrivare ad un conflitto dagli esiti catastrofici. L’abbraccio tra Francesco e Kirill ha un valore geopolitico enorme. Così come lo avuto, a suo tempo, l’assist che Francesco ha offerto a Putin, con la sua preghiera in San Pietro per la pace in Siria, nel frenare il progetto americano di intervenire direttamente nella guerra contro Assad. Senza avallare i disegni egemonici del Cremlino il Papa ha contribuito all’uscita della Russia dall’angolo in cui, pericolosamente, era stata confinata.
La seconda questione è collegata alla prima. Si tratta di sostenere tutti quei fattori che possono avviare processi di pace in Siria ed in Medio Oriente a tutela dei cristiani e degli stessi musulmani. Il rispetto portato da Francesco verso l’Islam, unito alla ferma critica verso il fondamentalismo religioso, ha come fine la pacifica convivenza dei popoli. Di quelli martoriati da orribili guerre civili in particolare. È quello che la destra cristiana, ferma al quadro teocon dello scontro tra Islam ed Occidente, dimostra di non capire.
La terza questione che sta a cuore al Papa è quella cinese. Il sogno di piene relazioni diplomatiche che garantiscano una compiuta libertà del cattolicesimo cinese è senz’altro nei desideri di Francesco. Passi importanti e segni di reciproco rispetto sono già stati compiuti. Il futuro è nelle mani di Dio. Anche qui una relazione piena aiuterebbe un incontro tra Occidente ed Oriente, di cui la pace nel mondo non potrebbe che beneficiarne.
L’informalità di questo Papa, i suoi frequenti discorsi a braccio, la facilità con cui concede interviste sono anch’essi oggetto di vivace discussione. In definitiva, però, che tipo di linguaggio è il suo?
È un linguaggio semplice accompagnato da quello del volto, delle mani, del corpo. Nel suo volume Il disegno di papa Francesco, padre Antonio Spadaro ha posto bene in luce questo aspetto della testimonianza papale. «Bergoglio – scrive Spadaro – “abita” la parola che pronuncia. Come egli non riesce a vivere da solo ma ha bisogno di una comunità, così la sua parola ha bisogno di far posto a chi gli sta davanti. Non è mai pronunciata per la sua bellezza, ma perché è in grado di realizzare una relazione evangelica. La parola di Bergoglio è figlia del sermo umilis di sant’Agostino, perché vuol essere una “parola-casa”, bella, accessibile e chiara, “soave”. Per questo è sempre segnata dall’oralità, dal dialogo, anche se viene scritta. Le parole prendono “corpo”». Riguardo alla “informalità” del papa, Spadaro ricorda come l’essere “normali” è, per Francesco, una condizione dell’essere cristiano. Quest’uomo, che appare oggi come un icona mediatica mondiale, rifiuta tutti i cliché delle star, in primo luogo l’esibizione della distanza e dell’eccezionalità. Il Deus semper maior è venuto nel mondo come un Deus absconditus, calato appieno nella normalità della vita. Come quella consegnata nella celebre immagine del Papa che sale le scalette dell’aereo portandosi appresso la sua cartella nera.
Mai nessun Papa si era guadagnato così tante critiche proprio nel mondo cattolico. Sono critiche puramente ideologiche, a suo avviso, o nascono da interessi concreti che Francesco andrebbe a mettere in discussione?
Sono vere l’una e l’altra cosa. È indubbio che le riforme e lo stile di vita del Papa vengano ad urtare, al momento, privilegi e carriere costruite su solidi interessi. Nella Chiesa clericalismo e burocratizzazione hanno segnato la scena negli ultimi decenni. Lo spaesamento di fronte ad un Papa che viaggia in utilitaria è grande. L’arma migliore è qui l’accusa di demagogia, di populismo, di cercare il plauso delle folle. In realtà, dietro alle critiche, si indovinano poltrone e ambizioni. Per questo molti attendono alla finestra che il ciclone passi e tutto torni come prima. Nel frattempo è sufficiente aggiornare il linguaggio ecclesiastico – le “periferie”, gli “ultimi”, la “misericordia” – senza che nulla cambi davvero. D’altra parte occorre capire che Francesco è oggi l’unica vera voce di rilievo, a livello mondiale, che sta opponendosi all’“ideologia” della globalizzazione, al dogma di un sistema economico che ha dissolto la sfera politica ed ha creato antitesi profonde negli stati e tra gli Stati. Differenze che sono le premesse di scontri, violenze, guerre future. Attenuare i contrasti sociali è un imperativo di pace nel mondo, questo è ciò che Francesco ha in mente. Il liberismo economico, privo di freni, non ha realizzato il mondo unito ma il suo contrario. All’interno della società, ha creato la duplice esclusione degli anziani e dei giovani senza lavoro. I due poli della società, i vecchi che sono la memoria di un popolo ed i giovani che sono il suo futuro, la sua speranza, sono gli esclusi, gli “scarti” di un mondo ossessionato dal proprio presente. Questa è l’attuale decadenza del mondo: quella di non avere più lo sguardo sul proprio futuro avendo tagliato le radici del proprio passato. Bergoglio non è un “progressista” illuminista. Sa che non c’è progresso se non c’è custodia della memoria popolare, quella dei “nonni” che non devono essere relegati negli ospizi ma custodire i propri nipoti. La destra cattolica, subalterna alla destra liberal, non capisce la ricchezza di questa prospettiva. Immaginando un Papa “modernista” non si avvede di rendere un servizio ad un neocapitalismo, individualista e cinico, che è la causa prima della “rivoluzione antropologica” che, al momento, dissolve ogni certezza morale. Questa incapacità di cogliere il vero avversario è il punto debole di uno pseudo-pensiero cattolico che, al momento, non ha più le coordinate per afferrare il mondo presente.