Vi propongo questo articolo sul tema della globalizzazione che ho pubblicato su Nuova Atlantide, prendendo spunto anche da documenti recenti come la relazione che il consigliere per la sicurezza nazionale del governo Biden, Jake Sullivan (nella foto), ha tenuto il 27 aprile 2023 presso la Brookings Institution
Nuova Atlantide è un trimestrale di cultura civile a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, finalizzata a promuovere un dibattito approfondito sui temi che la Fondazione presidia attraverso il suo percorso di studio, elaborazione, diffusione, dialogo: economia, finanza, welfare, educazione, lavoro, non profit, sanità, pubblica amministrazione, società.
Nuova Atlantide, Numero 9 (2023), Dalla globalizzazione dell’indifferenza alla globalizzazione dell’inclusione (M. Borghesi)
Il modello di globalizzazione che nel mondo ha dominato la fase post-comunista ha fallito. Esso ha prodotto nodi che hanno determinato il fenomeno dello sradicamento. Ovvero: un modello tecnocratico contro la persona che ha determinato un vuoto antropologico. Nel nuovo ordine mondiale si è assistito alla messa in pratica dell’accantonamento della dimensione “soggettiva”. Un’era caratterizzata da un’esaltazione mossa dal binomio tecnocrazia/liberismo. Un mondo – la società liquida definita da Bauman – dove si sono sfilacciate le relazioni ed è prevalso l’individualismo, con un deficit evidente di fattore umano come descritto da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. E così l’Occidente che vantava la sua superiorità morale sull’Oriente, in quanto fondata sulla libertà e sulla tradizione umanistica, ha progressivamente oscurato la dimensione fondamentale dell’etica, dell’economia, della politica. La drammaticità della situazione suggerisce una radicale e umana presa di coscienza.
Una globalizzazione anonima
Il modello liberal-capitalista che ha vinto la storica competizione contro quello comunista, nel 1989-1991, non ha realizzato un mondo a misura di persone ma, al contrario, ha segnato il trionfo del modello tecnocratico, anonimo e impersonale. Questo è abbastanza paradossale, dal momento che l’Occidente ha sempre vantato la sua superiorità morale sull’Oriente, fondata sulla libertà e sulla tradizione umanistica. L’era della globalizzazione ha costituito, al contrario, una sorta di mix tra liberalismo e tecnocrazia, che ha visto oscurarsi proprio il fattore umano quale dimensione fondamentale dell’etica, dell’economia, della politica.
Sconfitto l’avversario sovietico, l’Ovest non ha avuto più bisogno del patrimonio ideale necessario in tempi di guerra. Un patrimonio gravoso anche dal punto di vista economico a causa del welfare e delle misure richieste per sostenere lavoro, occupazione, salari, diritti sociali. Il nuovo liberalismo, privo del nemico, poteva ritrovare la sua anima economicistica e utilitaristica, già al centro del liberismo illuministico del Settecento.
Dal momento che la Russia era stata piegata dalla potenza economico-militare di Stati Uniti ed Europa, ogni altra giustificazione della propria superiorità risultava superflua. L’era della globalizzazione si muove tra tecnocrazia e liberismo. Il successo economico diviene l’unico parametro e il fattore umano cade, al pari di ogni dimensione ideale, sullo sfondo. Collocata in questo quadro, l’affermazione di Paul Ricoeur: “Muore il personalismo, ritorna la persona”, del 1983, non pare avere valore profetico1.
Allo stesso modo cade l’oblio sulla grande enciclica di Giovanni Paolo II Laborem exercens, del 1981. Al centro di intensi dibattiti e scambi culturali tra la Polonia di Solidarnosc e i movimenti cattolici dei lavoratori dell’America Latina, essa, con la sua insistenza sulla dimensione “soggettiva”, antropologica, del lavoro, viene rapidamente accantonata nel nuovo ordine mondiale. I decenni che ci separano dall’era Thatcher-Reagan hanno visto l’universo sociale dominato da un modello tecnico-materialistico, saturo di un ottimismo planetario fuori misura, rigorosamente separato da ogni considerazione etico-politica. Il 1989, dopo i giorni felici della caduta del muro di Berlino, ha inaugurato sul piano reale il trionfo del positivismo di Comte sulla dialettica di Marx e l’imporsi del pensiero elitario ed estetizzante di Nietzsche.
Il risultato è un mondo scisso, diviso tra freddezza ed esaltazione, lavoro e divertissement, business ed eros. Il realismo cinico della sfera del lavoro trova la sua compensazione nella sfera estetica, marcata da trasgressioni e accentuate alienazioni.
Il punto di connessione tra i due mondi, quello economico e quello estetico-virtuale, è nella “solitudine”. L’impiegato davanti al computer e il giovane che danza in discoteca rappresentano due monadi. L’era della globalizzazione unisce gli uomini isolandoli. È quanto ha messo in luce Zygmunt Bauman nei suoi molti studi sulla “società liquida”. L’unità della globalizzazione è resa possibile dalla sterilizzazione delle idee, dalla scomparsa dei partiti e dal declino della politica, da tutto ciò che unisce in profondità gli animi. La globalizzazione globalizza sradicando e livellando. La reductio ad unum è in grado di valorizzare (apparentemente) il particolare solo isolandolo, elevandolo a individuo irrelato, a un super-io modellato a partire dal sistema. La società delle emozioni diviene la società degli individui, la cui sostenibilità richiede l’incremento di un sistema capace di governare e soddisfare le richieste che esso stesso produce. Come scrivono Chiara Giaccardi e Mauro Magatti: “La società liquida tende così a polarizzarsi attorno alla dualità individualizzazione-totalizzazione: quanto più si mette l’accento sull’io – ampliando lo spazio di autodeterminazione e indebolendo tutti i legami sociali e culturali intermedi – tanto più c’è necessità di rafforzare l’organizzazione sistemica della vita sociale, con la standardizzazione dei rapporti, la loro regolazione procedurale, il disancoramento dai contesti locali. […] È una spirale che si avvita su sé stessa. Da un lato, perché l’impulso verso l’individualizzazione è solo l’altra faccia della medaglia di una spinta verso la totalizzazione, cioè verso un’organizzazione sociale sempre più integrata, in grado di garantire un aumento di possibilità per la vita individuale, ma anche un maggior controllo e disciplinamento. […] I nuovi dispositivi del potere – impersonali, astratti, culturalmente indifferenti – cercano di controllare i circuiti delle autonomie individuali, apparentemente ‘liberate’ dai vecchi vincoli, inscrivendo la gamma dei percorsi di costruzione di sé dentro la cornice di inedite quanto potenti forme di ‘governamentalità’ intesa come ‘condotta delle condotte’”2.
La dialettica tra universale e particolare, analizzata da Giaccardi e Magatti, mostra come all’interno del modello della globalizzazione l’integrazione tra i due poli non funzioni. Al contrario, è la totalità che produce ed esaspera i moti individualistici al fine di accentuare il movimento stesso della totalizzazione. La totalità produce una individuazione che allontana gli individui tra di loro e dall’intero. Produce monadi che non hanno più radici. È quanto accade con il modello economico universalizzante fondato su digitalizzazione e delocalizzazione. Se la digitalizzazione sembra unire – il mondo nel mio schermo – la delocalizzazione comporta sradicamento, estraneazione, disaffezione. Accentua il passaggio dal qualitativo al quantitativo, dal personale al numerico, che qualifica il trend economico fondato sulla massimizzazione del risparmio e dei profitti.
Come scrive Benedetto XVI in Caritas in Veritate: “Il mercato diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte dei Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere d’acquisto e accelerare pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio mercato interno. Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove di competizione tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi di imprese straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco favorevole e la deregolamentazione del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale”3.
Ripensare il modello di sviluppo
I rilievi critici di Benedetto XVI sono stati ripresi e sviluppati, in questi anni, da papa Francesco in Evangelii gaudium, Laudato si’, Fratelli tutti4. Essi consentono di cogliere il nodo che, non sciolto, è all’origine dei vari populismi: il venir meno della relazione di solidarietà, cioè di quei rapporti che rendono possibile la dimensione personale la quale è sempre relazionale. L’avvento del mondo liquido, analizzato da Bauman, non è un prodotto casuale, ma costituisce il risultato di un modello tecnico-economico che ha assunto un’antropologia negativa di tipo hobbesiano-darwinista come criterio dominante. L’esito è il mondo degli uomini soli, incapaci di una relazione solidale e personale. Da questo punto di vista potremmo dire che la Pandemia da Covid-19, che ha costretto l’umanità a trincerarsi dietro le porte e le finestre delle proprie case, è stata in realtà preceduta da un’altra pandemia, meno eclatante ma non meno virale, quella tecno-economica che ha desertificato l’animo di individui, popoli e nazioni. Come ha scritto papa Francesco: “Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie d’uscita. Si considera l’essere umano in sé stesso come bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’ che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’”5.
Il vuoto antropologico prodotto dal modello della globalizzazione si flette, al presente, nelle critiche che da più parti sono volte al paradigma che ha governato il mondo negli ultimi quarant’anni. Come scrivono Giaccardi e Magatti: “Per l’Occidente, in particolare, si prospetta una vera e propria scelta di civiltà: decidere, ancora una volta, che è la libertà – e con essa la democrazia, la solidarietà, la pace – la carta vincente per affrontare le nuove sfide della fase post-pandemica. Una scelta tutt’altro che scontata e a costo zero: solo investendo sulle persone e la qualità delle nostre relazioni personali e istituzionali possiamo pensare di farcela”6.
Un interessante documento della necessità di un ripensamento generale del quadro teorico che ha guidato la politica e l’economia mondiale nell’arco degli ultimi decenni viene ora dalla relazione che il consigliere per la sicurezza nazionale del governo Biden, Jake Sullivan, ha tenuto il 27 aprile 2023 presso la Brookings Institution. In essa Sullivan critica in profondità il modello di politica economica statunitense, lo stesso che continua a dominare la UE.
“Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti guidarono un mondo frammentato verso la costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Ha sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà. Ha sostenuto entusiasmanti rivoluzioni tecnologiche. E ha aiutato gli Stati Uniti e molte altre nazioni in tutto il mondo a raggiungere nuovi livelli di prosperità. Ma gli ultimi decenni hanno rivelato crepe in quelle fondamenta. Un’economia globale in evoluzione ha lasciato indietro molti americani che lavorano e le loro comunità. Una crisi finanziaria ha scosso la classe media. Una pandemia ha messo in luce la fragilità delle nostre filiere. Un clima che cambia ha minacciato vite e mezzi di sussistenza. L’invasione russa dell’Ucraina ha sottolineato i rischi di un’eccessiva dipendenza. Quindi questo momento richiede che forgiamo un nuovo consenso”7.
La proposta di Sullivan riguarda un “ordine globale più equo e duraturo”, tale da “rivisitare alcuni vecchi presupposti”. Tra questi c’è la messa in questione del postulato della liberalizzazione del mercato quale unico criterio di efficienza economica. “La visione dell’investimento pubblico che aveva dato energia al progetto americano negli anni del dopoguerra – e in effetti per gran parte della nostra storia – era svanita. Aveva lasciato il posto a una serie di idee che sostenevano il taglio delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione rispetto all’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio fine a sé stessa”8. Con la conseguenza che “in nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata, intere catene di approvvigionamento di beni strategici, insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li hanno realizzati, si sono spostate all’estero. E il postulato che una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, era una promessa fatta ma non mantenuta”9. Secondo Sullivan “gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni si era basata sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo, che portare i Paesi nell’ordine basato sulle regole avrebbe incentivato loro di aderire alle sue regole. Non è andata così”10. Il sogno che soggiaceva al manifesto della globalizzazione, il volume di Francis Fukuyama The End of History and the last Man, appare con ciò definitivamente abbandonato.
Tra le sfide che Sullivan indica per una nuova visione della politica e dell’economia vi sono quelle relative alle disuguaglianze e alla crisi della democrazia. Nel vecchio modello liberista “il presupposto prevalente era che la crescita abilitata dal commercio sarebbe stata una crescita inclusiva, che i guadagni del commercio sarebbero stati ampiamente condivisi all’interno delle nazioni. Ma il fatto è che quei guadagni non sono riusciti a raggiungere molti lavoratori. La classe media americana ha perso terreno mentre i ricchi hanno fatto meglio che mai. E le comunità manifatturiere americane sono state svuotate mentre le industrie all’avanguardia si sono trasferite nelle aree metropolitane. Ora, i driver della disuguaglianza economica, come molti di voi sanno anche meglio di me, sono complessi e includono sfide strutturali come la rivoluzione digitale. Ma la chiave tra questi driver sono decenni di politiche economiche a cascata (but key among these drivers are decades of trickle-down economic policies), politiche come tagli fiscali regressivi, tagli profondi agli investimenti pubblici, concentrazione aziendale incontrollata e misure attive per minare il movimento operaio che inizialmente ha costruito la classe media americana”11.
La critica di Sullivan al modello economico del trickle-down (cascata-gocciolamento-ricaduta) è analoga a quella che ritroviamo nel paragrafo 54 di Evangelii gaudium. In esso papa Francesco scrive: “In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della ‘ricaduta favorevole’, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza”12.
Si tratta di un paragrafo fortemente criticato, a suo tempo, dai pensatori teocon statunitensi e dai liberalcapitalisti. La conferma che ora la relazione di Sullivan apporta al documento papale è preziosa. Lo stesso potere, nei suoi vertici mondiali, percepisce il fallimento del modello che ha dominato la fase post-comunista nel mondo. La “globalizzazione dell’indifferenza” richiede di essere ripensata a favore di una globalizzazione dell’inclusione. La nozione di persona, come auspicava Ricoeur negli anni Ottanta del secolo scorso, deve tornare al centro della teoria e della prassi.
NOTE
- P. Ricoeur, Meurt le personnalisme, revient la personne, in Esprit, 1(1983), pp. 113-119.
- C. Giaccardi, M. Magatti, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà, Il Mulino, Bologna 2022, pp. 33-35.
- Benedetto XVI, Caritas in Veritate, lettera enciclica del sommo pontefice Benedetto XVI ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici e a tutti gli uomini di buona volontà sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, Roma, 29 giugno 2009, §25.
- Cfr. M. Borghesi, La Chiesa tra ideologia teocon e “ospedale da campo”, Jaca Book, Milano 2021, pp. 135-196.
- Papa Francesco, Evangelii gaudium, esortazione apostolica del santo padre Francesco ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e ai fedeli laici sull’ annuncio del vangelo nel mondo attuale, Roma, 24 novembre 2013, §53.
- C. Giaccardi-M. Magatti, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà, cit., pp. 10-11.
- J. Sullivan, Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution, Washington, 27 aprile 2023, https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2023/04/27/remarks-by-national-security-advisor-jake-sullivan-on-renewing-american-economic-leadership-at-the-brookings-institution/ (traduzione nostra)
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- Papa Francesco, Evangelii gaudium, cit., §54.