Il dibattito culturale degli anni Venti e Trenta del Novecento e la sua incidenza sulla vita ecclesiale si trovano al centro dell’attenzione e rappresentano l’oggetto principale del volume che raccoglie gli Atti del XV Colloquio Internazionale dell’Istituto Paolo VI (Concesio, 23-25 settembre 2022), “La questione di Dio in un’epoca di crisi. G.B. Montini e la cultura religiosa tra le due guerre mondiali”, ora pubblicati da Studium.
L’intento perseguito con la scelta di questo tema è evidentemente chiarire in che modo lo studio, l’avvio del ministero e lo sguardo sul mondo, dal punto di vista della Segreteria di Stato vaticana, nell’epoca dei totalitarismi, abbiano plasmato la figura di Giovanni Battista Montini e rendano ragione delle caratteristiche dell’azione pastorale e del magistero nelle successive stagioni della sua vita.
Si incontra qui, nella sua radice, il tema a lungo studiato del rapporto di Giovanni Battista Montini con la modernità. Egli si forma nella stagione ecclesiale successiva al modernismo, in un contesto ecclesiale assai sensibile e, non di rado, dichiaratamente sospettoso verso ogni possibile cedimento al pensiero moderno. Negli anni Venti e Trenta G.B. Montini matura uno sguardo differenziato sulla cultura moderna, che non deve essere demonizzata, ma neppure può essere assunta acriticamente. In modo più profondo, ma anche meno esplicito, si intravede negli scritti di Montini di questo periodo la convinzione che la modernità si dà in molti modi ed esige perciò capacità di discernimento e un’attitudine che si potrebbe dire di “partecipazione critica” alla vicenda della cultura del tempo.
Con contributi di: Andrea Riccardi, Jacques Prévotat, Thomas Ruster, Maria Pia Sacchi, Alessandro Angelo Persico, Jörg Ernesti, Simona Negruzzo, Eliana Versace, Francesco Bonini, Cesare Repossi, Massimo Borghesi, Tiziano Torresi, Xenio Toscani. A cura di Angelo Maffeis
Riporto qui l’inizio del mio contributo dal titolo:
TOTALITARISMO E DEMOCRAZIA
Montini e il pensiero cattolico degli anni ‘20-’30
L’emergere del totalitarismo politico rappresenta uno dei risultati della prima guerra mondiale. Si tratta di un fenomeno nuovo che oltrepassando, in Europa, il quadro dello Stato liberale dell’800 fuoriesce dalle categorie tradizionali. Le classi politiche che avevano guidato i governi, prima o durante la guerra, erano impreparate, incapaci di comprendere i movimenti e gli uomini nuovi che irrompevano sulla scena con la volontà dichiarata di affermare una visione totale dello Stato e della vita politica. Una pari impreparazione riguardava la Chiesa e il mondo cattolico in generale. Come scrive Anthony Rhodes nel suo The Vatican in the Age of the Dictators:
Nel 1918 era sorta una nuova Europa, tre grandi monarchie erano crollate e dalle loro rovine era emerso un ibrido stuolo di piccoli stati. Le monarchie e le aristocrazie con le quali il Vaticano era abituato a trattare erano state sostituite quali enti di governo da una persona, nella maggior parte dei casi un individuo qualsiasi, un dittatore, che spesso, con arroganza, si proclamava ateo. Questi uomini esigevano un nuovo modo di affrontare le cose. Nei tre secoli precedenti i re e i principi coi quali il Vaticano si era trovato a negoziare basavano i propri regimi sulla tradizione o almeno sulla riconosciuta accettazione della morale cristiana. È vero che il papato aveva già dovuto subire altri flagelli, come Luigi XIV con il suo gallicanesimo o Giuseppe II con il suo giuseppinismo. Questi principi tuttavia rappresentavano per il papato un problema più semplice di quello imposto dai dittatori moderni i quali rinnegando ogni credo trascendente, non ammettevano altra legge che non fosse la loro morale immanente, mentre predicavano una dottrina di aperta rivolta contro i valori accettati[1].
La Chiesa affrontava la nuova morale e la nuova politica, che trovavano espressione nel comunismo russo e nel fascismo italiano, servendosi del modello concettuale ereditato dalla Lettera enciclica Quanta cura, con annesso il «Sillabo», di Pio IX. Un modello ambivalente che soffriva di una intima contraddizione. Da un lato esso consentiva la critica dello Stato assoluto, panteistico, di matrice hegeliana. È la concezione per la quale, come recita la proposizione XXXIX del Sillabo: «Lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini». Dall’altro, però, il testo di Pio IX sposava, in nome dello storico connubio tra Chiesa e Stato, un antiliberalismo radicale che rifiutava in blocco il quadro dei diritti e delle libertà moderne. Donde una inevitabile prospettiva autoritaria e clericale per la quale la Chiesa non si opponeva al totalitarismo in quanto tale ma solo alle sue implicazioni sul terreno ecclesiastico. La conclamata indifferenza verso ogni regime politico non consentiva di tracciare differenza alcuna tra modelli liberali e modelli totalitari. Nel caso dei regimi totalitari laddove Chiesa e Stato avessero trovato un modus vivendi conveniente per ambedue le parti la Chiesa non avrebbe sollevato obiezioni sulla legittimità dei regimi. Il bene comune della Chiesa non coincideva con quello sociale o politico. Preoccupata della sua libertà la Chiesa non lo era altrettanto verso quella di tutti i cittadini, credenti o meno. Questo clericalismo esponeva inevitabilmente la Chiesa al ricatto di benefattori interessati ad avere il consenso cattolico malamente rifiutato dalle politiche anticlericali dei governi liberali. La miopia dello Stato liberale della seconda metà dell’800 faceva il paio con le nostalgie “medievaliste” della cultura cattolica e consegnava la Chiesa nelle mani dei nuovi signori che prendono il potere nel dopoguerra.
Come era possibile opporsi allo Stato assoluto, ai nuovi totalitarismi, è al tempo stesso adottare prospettive autoritarie ed antiliberali legate al modello del Sacrum imperium medievale? Il quesito veniva risolto sul piano tattico, nella distinzione tra tesi ed ipotesi, coniugando il rispetto dei governi vigenti con l’attesa delle condizioni diverse che avrebbero consentito nuove prospettive. In tal modo ogni soluzione politica “laica” alternativa al modello totalitario veniva destituita di ogni validità, sacrificata nel momento stesso in cui fosse risultata di ostacolo al connubio tra Chiesa e Stato come avverrà, sotto il governo fascista, con la liquidazione del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo. Dal punto di vista clericale il PPI di Sturzo, nella misura in cui rifiutava di connettersi organicamente all’Azione Cattolica e ribadiva la sua natura laicale, appariva come una strada che favoriva, inevitabilmente, la secolarizzazione dei cattolici. Era quanto pensava padre Luigi Gemelli per il quale Sturzo, optando per il metodo liberal-democratico, traghettava, al di là delle sue intenzioni, i cattolici su un terreno laico; adottava i simboli di una religione civile che non era quella cattolica […].
[1] A. RHODES, The Vatican in the Age of the Dictators 1922-1945, Holt, Rinehart and Winston, New York 1974, tr. it., Il Vaticano e le dittature 1922-1945, Presentazione di G. Bianchi, Mursia, Milano 1975, pp. 20-21.