Ne “L’Osservatore Romano” del 24 aprile 2023, alle pp. 2-3, è stato pubblicato il mio articolo “Lasciarsi interrogare dalle sfide del presente. Una riflessione a partire da papa Francesco”. L’articolo analizza la categoria di “cambiamento d’epoca”, centrale nel magistero sociale del Papa, che in un recente colloquio che ho avuto a Madrid con il cardinale di Città del Messico Carlos Aguiar Retes (nella foto principale), ho scoperto esser stata formulata, per la prima volta, nel grande Convegno della Chiesa latinoamericana di Aparecida, nel 2007. La sua genesi risiede nella lettura, da parte del cardinale, di un’opera del grande pensatore spagnolo Ortega y Gasset (un ritratto qui accanto): “En torno a Galileo” del 1932.
L’Osservatore Romano, 24 aprile 2023, p. 2, Lasciarsi interrogare dalle sfide del presente (Massimo Borghesi)
Nei giorni 29 e 30 marzo si è tenuto a Madrid il congresso La alegría del Evangelio. Diez años de magisterio del Papa Francisco organizzato dal Secretariado de Pastoral Universitaria. Erano presenti i cardinali di Madrid, Carlos Osoro Sierra, di Barcellona, Juan José Omella, di Città del Messico, Carlos Aguiar Retes. Appuntamento importante che ha consentito di fare il punto sulla Chiesa spagnola nel suo rapporto con papa Francesco. Tra i relatori figurava, come si è detto, il cardinal Aguiar con una conferenza dal titolo Desarrollo del magisterio pontificio del Papa Francisco y continuidad con sus predecesores. In essa il porporato ha mostrato, con grande competenza, come le accuse che molti conservatori muovono oggi al Papa in materia sociale siano le medesime che, a suo tempo, molti cattolici mossero a Leone XIII, Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II.
Monsignor Aguiar è una figura chiave della Chiesa latinoamericana. Ordinato vescovo, nel 1997, da Giovanni Paolo II, è stato fatto cardinale da papa Francesco nel 2016 diventando, nel 2017, primate del Messico. Dal 2011 al 2015 è stato presidente del Celam, la Conferenza episcopale dell’America Latina e dei Caraibi. Aguiar è un autentico vescovo-pastore, da sempre vicino a Bergoglio. Con il cardinal Bergoglio ha condiviso la gestione e l’elaborazione del V Convegno della Chiesa latinoamericana che si è svolto ad Aparecida, in Brasile, dal 13 al 31 maggio 2007, il cui documento conclusivo sarà ripreso nella sostanza da Evangelii gaudium, il manifesto del pontificato di Francesco. In quella occasione il vescovo Aguiar pronunziò un discorso, dal titolo El tiempo actual di grande rilievo. In esso affermava che «conviene tener presente che un’epoca di cambiamenti non significa la stessa cosa rispetto al cambiamento d’epoca» (Conviene tener en cuenta como primera aclaración que no es lo mismo una época de cambios que un cambio de época). Aguiar distingueva la crisi di adattamento delle nuove generazioni ai modelli culturali vigenti da una crisi ben più radicale, rappresentata dalla messa in discussione di tutti i valori, quale è quella propria del mutamento di un’epoca. «Per avere un’idea di quanto stiamo descrivendo, – aggiungeva – è opportuno ricordare che l’ultimo Cambio di Epoca si ebbe nel XVI secolo quando sorse l’era moderna».
Questo cambiamento, bene espresso dall’ideologia post-moderna, presentava esiti negativi, come l’individualismo edonistico e liberal, ed altri positivi, come l’esigenza religiosa espressa in modo più o meno informe. Nell’ottica di mons. Aguiar l’analisi del «cambiamento epocale» non era finalizzata a posizionare la Chiesa in chiave reattiva e conservatrice, ma a declinarla in un’ottica missionaria e di dialogo al fine di ritrovare un ponte, soprattutto con le giovani generazioni.
Una lettura destinata ad imporsi, nonostante le resistenze di taluni, che troverà la sua espressione nei paragrafi 43-59 del documento finale della conferenza di Aparecida la quale, nel paragrafo 44 recitava:
«Stiamo vivendo un cambiamento epocale, il cui livello più proprio è culturale. Si sta dileguando la concezione integrale dell’essere umano, nella sua relazione con il mondo e con Dio… Emerge oggi con grande forza una sopravvalutazione della soggettività individuale. La libertà e la dignità della persona sono riconosciute indipendentemente dalla loro forma. L’individualismo indebolisce i vincoli comunitari e propone una radicale trasformazione del tempo e dello spazio, riservando un ruolo primario all’immaginazione. I fenomeni sociali, economici e tecnologici stanno a fondamento del modo profondo di vivere il tempo, che viene concepito come fermo al presente, alimentando un senso di inconsistenza e instabilità. Si abbandona la preoccupazione per il bene comune per dare spazio alla realizzazione immediata dei desideri dei singoli, alla creazione di nuovi e, molte volte, arbitrari diritti individuali, in relazione alla sessualità, alla famiglia, alle malattie e alla morte».
Se questi erano taluni dei risvolti negativi della trasformazione epocale in atto un elemento positivo era dato dall’accento posto sul valore dell’esperienza.
«Il rilievo dato all’esperienza personale e al vissuto – recitava il § 55 – ci porta a considerare la testimonianza come una componente centrale della vita della fede. Gli avvenimenti vengono valorizzati in quanto sono significativi per la persona. Nel linguaggio della testimonianza possiamo incontrare un punto di contatto con le persone che compongono la società e tra loro stesse».
Attraverso Aparecida la categoria di «cambiamento d’epoca» entrava così nel lessico ecclesiale. La sorpresa concerne la fonte di tale categoria. Nel colloquio, del tutto informale, che ho avuto a Madrid con il cardinal Aguiar mi ha confessato che l’idea gli è provenuta dalla lettura di un volume di Ortega y Gasset, il grande pensatore spagnolo della prima metà del ‘900. Si tratta del testo del 1932 En torno a Galileo (foto a lato). In esso Ortega si cimentava, per la prima volta, con il tema della storia, con il problema delle “crisi” che segnano i processi storici determinando significativi cambiamenti. In questo caso la “crisi della modernità”, quella galileiana, diventava un modello che poteva aiutare a comprendere la crisi presente, quella che Ortega diagnosticava guardando il suo mondo, quello del 1932.
Il criterio ermeneutico da lui adottato si fondava sulla “teoria delle generazioni” secondo la quale i cambiamenti storici sono dovuti a “variazioni della sensibilità vitale”, che si traducono nel cambiamento delle generazioni. Si tratta di una prospettiva di grande interesse la cui attualità era pienamente compresa dall’allora vescovo Aguiar il quale, fedele all’indicazione del Vaticano II sulla Chiesa come interprete dei “segni dei tempi”, ne aveva tratto lo spunto e il modello per cogliere i nuovi segni dei tempi, quelli odierni, affini e al contempo diversi rispetto a quelli registrati da Ortega.
La sorpresa di fronte alla genealogia “filosofica” della categoria di «cambiamento d’epoca», confessatami dal cardinale, non è in realtà del tutto giustificata. La notizia non era certo segreta come è possibile verificare leggendo la densa relazione del 2017 di Rodrigo Guerra López, Cristianismo y cambio de época, che si può consultare su internet. D’altra parte Aguiar non ha cessato, in anni recenti, di richiamarsi all’autorità di Ortega y Gasset per chiarire la sua prospettiva. Lo ha ribadito nel 2018 durante un briefing sui lavori sinodali:
«Oggi stiamo vivendo un grosso cambiamento epocale, non c’è più consenso dei valori né comportamento sociale accettato da tutti. Ci sono adolescenti pieni di confusione, non sanno cosa li potrà aiutare o danneggiare, non hanno le idee chiare, è importante scoprire dei percorsi per capire quali sono le persone più colpite da questo grande cambiamento sociale, previsto già nel 1932 da Ortega Y Gasset: sarebbe molto utile leggere i suoi scritti».
Comunque sia, il collegamento tra Ortega e la categoria di “cambiamento d’epoca” non è certamente molto noto. Quello che è noto, invece, è la fama che questa categoria ha assunto grazie al Pontificato di Francesco. In più occasioni il Papa ha parlato di “cambiamento d’epoca”. Ne ha parlato all’incontro con i rappresentanti della Chiesa italiana, a Firenze il 10 novembre 2015. In quell’occasione ha detto che «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca». In modo più ampio il Papa ne ha trattato nella sua Udienza alla Curia Romana il 21 dicembre 2019.
«Tutto questo – afferma in quell’occasione – ha una particolare valenza nel nostro tempo, perché quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. Il cambiamento, in questo caso, assumerebbe tutt’altro aspetto: da elemento di contorno, da contesto o da pretesto, da paesaggio esterno… diventerebbe sempre più umano, e anche più cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica».
Questa conversione è richiesta per rispondere ad un mondo che non è più cristiano. Il “cambiamento d’epoca” indica, innanzitutto, il passaggio verso un profilo umano e storico che si è lasciato dietro le spalle le tracce della “cristianità”. Per questo nel suo discorso natalizio alla Curia il Papa solleva dubbi sulla funzionalità della distinzione tra i due Dicasteri: la Congregazione per la Dottrina della Fede e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli.
«Quando queste prime due Congregazioni citate furono istituite, si era in un’epoca nella quale era più semplice distinguere tra due versanti abbastanza definiti: un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra. Adesso questa situazione non esiste più. Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale. Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata. Ciò fu sottolineato da Benedetto XVI quando, indicendo l’Anno della Fede (2012), scrisse: “Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone”».
Si tratta di una lettura che marca la differenza tra la prospettiva papale, anticipata da Aparecida, e quella di coloro che fondano tutta la loro geopolitica ecclesiale nella difesa dell’Occidente “cristiano” contro l’avversario esterno. Nell’ottica di Bergoglio, l’Europa ha consumato la linfa cristiana, la secolarizzazione ha esaurito le radici cristiane. La pianta richiede di essere potata e, in molti casi, di essere generata di nuovo. Se il cristianesimo è fiorente in molte parti dell’America Latina e del mondo, la stessa cosa non si può dire nel suolo europeo. A marcare questa consapevolezza, il dato fondamentale della fine della cristianità, il Papa ricorda, nella nota 17 del suo discorso alla Curia romana, che:
«Il cambiamento di epoca fu pure avvertito in Francia dal Card. Suhard (si pensi alla sua lettera pastorale Essor ou déclin de l’Église, 1947) e pure dall’allora Arcivescovo di Milano G.B. Montini. Anch’egli si chiedeva se l’Italia fosse ancora un Paese cattolico (cfr. Prolusione alla VIII Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, 22 settembre 1958, in Discorsi e Scritti milanesi 1954-1963, vol. II, Brescia-Roma 1997, 2328)».
Il testo montiniano costituiva l’ideale prosecuzione della «Lettera pastorale all’arcidiocesi ambrosiana per la Quaresima 1957», titolata Sul senso religioso. In essa l’arcivescovo di Milano invitava, di fronte al cambiamento della mentalità e della tradizione cristiana colpite dal laicismo e dall’ateismo, a coltivare la dimensione religiosa dell’uomo, a ravvivarla come precondizione di una fede viva e non meramente rituale, a non cullarsi su un cristianesimo fondato sulla consuetudine. Dopo la nota lettera pastorale del cardinal Suhard la lettera pastorale di Montini aveva un valore profetico, individuava la sfida per la fede nel tramonto della cristianità.
In tal modo la categoria di “cambiamento d’epoca” si chiarisce. Partita dalla lettura del testo di Ortega y Gasset ad opera dell’allora vescovo Aguiar essa diviene, con papa Francesco, l’orizzonte entro cui situare la Chiesa missionaria del III millennio.