Eravamo uniti, ci siamo divisi, ritorniamo insieme: unità-scissione-riconciliazione. Il vecchio Hegel (nell’immagine), con il suo modello dialettico, sembrerebbe non avere torto. In realtà la nuova unità tra di noi, che la fine del lockdown rende possibile, non è l’esito dell’Aufhebung, di una conservazione ideale dell’unità che ci legava prima del virus. Non ci siamo elevati al concetto universale lasciandoci dietro le spalle i legami affettivi con gli individui a noi cari. Non siamo passati ad “altro”. Dopo la lontananza impostaci dalla pandemia noi “ritorniamo” ai nostri affetti, agli antichi legami, alla possibilità di abbracciare volti e persone con cui eravamo e siamo legati. Si ritorna all’unità empirica, carnale, dopo la torsione ideale imposta dalle circostanze. La dialettica affettiva si dimostra più forte di quella dell’astratto teorizzata da Hegel. Più forte proprio perché passata attraverso l’esperienza del negativo, della lontananza, dell’assenza. Nulla ci è più caro di un bene che, perduto, viene ritrovato.
È quanto narra la parabola del figliol prodigo. Il negativo, la perdita, non media qui il passaggio verso l’universale e il superamento dell’individuale. Ci siamo persi per poterci ritrovare nella nostra irripetibile singolarità, nel nostro essere proprio, personale. Il negativo media il passaggio verso una riscoperta dell’individuale, non già verso il suo abbandono. Così la dialettica al tempo del coronavirus ricalca il modello hegeliano rovesciandone il risultato. Non approda all’idealismo ma ad un realismo più intenso, più saturo di affetti. Questo ritorno verso la singolarità, verso il valore di chi ci è caro e poteva esserci sottratto, costituisce una sorta di meditatio mortis che, per un attimo, interrompe il fiume Lete, l’oblio del mondo estetico-tecnocratico che domina l’era della globalizzazione. Si tratta di una attimo, prezioso e fugace.
Tornando alla vita “normale” molti dimenticheranno presto, torneranno ai ritmi consueti come se nulla fosse accaduto. Un brutto sogno, da dimenticare al più presto. L’esperienza del negativo, della morte, si riduce ad un brutto spavento, nulla più. E così anche il grande evento del 2020, che sarà ricordato nei manuali di storia insieme alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e a quella delle Torri gemelle, nel 2001, costituirà un’occasione persa. Il negativo media qui il semplice ritorno all’antico. Un errore di prospettiva grave nelle sue implicazioni, personali e collettive.
Su un punto il vecchio Hegel aveva ragione: l’esperienza della negatività quando è compresa non consente il semplice ritorno. Non possiamo tornare a ciò che eravamo come se nulla fosse accaduto. Possiamo tornare all’antico, agli affetti, solo se questi vengono riscoperti in modo nuovo. Il tempo che ci è donato, e che a tanti è stato drammaticamente sottratto, è il tempo “in più” per riscoprire quanto avevamo perso: le persone che, pur essendoci vicine, sono state rese evanescenti dal grigiore dell’abitudine, da un possesso ritenuto ovvio, da un egoismo freddo e sottile. Amori dimenticati, vivi un tempo, possono essere riaccesi. Abbiamo ancora tempo: questo è il messaggio della pandemia. Abbiamo ancora tempo per amare, per costruire, per donare. Non può essere sprecato.