Proseguono a ritmo continuo le recensioni del volume da me curato contenente una raccolta di omelie romane di don Giacomo Tantardini. Su Il Foglio cartaceo e online ne propone una molto bella il vicedirettore Maurizio Crippa.
ilfoglio.it, venerdì 5 luglio, Le belle omelie felici. Il cristianesimo semplice di don Giacomo Tantardini (Maurizio Crippa)
Il cristianesimo “è una storia semplice”, aveva detto in un incontro pubblico, si era nei giorni di Natale. Non una teoria, non una teologia, non una costruzione culturale da opporre – magari – ad altre culture “atee”, non un elenco di precetti ridotti al proprio impegno (il “pelagianesimo”). La fede di don Giacomo Tantardini è trascorsa tutta quanta come “presa in braccio” dalla tenerezza di Gesù (una delle sue preghiere preferite, di sant’Ambrogio: “Prendimi in braccio / portami”). Negli ultimi anni della sua vita, tra il 2007 il 2012, la sua capacità di testimoniare l’essenziale della fede aveva trovato un luogo e una sintesi nelle omelie delle messe celebrate ogni sabato sera a San Lorenzo fuori le Mura, la magnifica basilica romana nel cui pronao c’è la tomba di De Gasperi, mentre nella cripta riposa san Lorenzo. “Adulti, giovani e tanti bambini. Un pezzo di Paradiso”, chi ha assistito a queste celebrazioni, alla cura della liturgia, lo ricorda.
Ora quelle omelie sono raccolte in un libro, “E’ bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio – Omelie a San Lorenzo fuori le mura (2007-2012)” curato da Massimo Borghesi e pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana su esplicito invito di Papa Francesco – che aveva conosciuto ed era diventato amico di quel sacerdote impetuoso e timido, nato tra i monti della Valsassina ma fattosi romano. Libro frutto di un piccolo miracolo: erano state registrate artigianalmente ma con fedeltà da uno dei partecipanti, così che oggi la trascrizione riesce a conservare la forza affascinante del parlato.
Mai discorsi, sempre evidenze vive, comprensibili. Cos’è la Chiesa? Sono “quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore”. Persino l’incredulità di Tommaso, su cui i preti sempre si incartano, è invece una grazia: “Il dubbio prezioso di Tommaso” rende evidente che la fede non nasce da un’auto-convinzione ma da Cristo che “si è fatto presente”.
Omelie in una lingua “bella e semplicissima”, per usare le parole con cui descriveva quelle del suo amato sant’Agostino: “Parlava ai fedeli in maniera bella e semplicissima, tant’è vero che lo potevano capire i poveri ignoranti analfabeti, che credo fossero la maggior parte dei fedeli della piccola città di Ippona”. E’ difficile scindere i testi dal volto di chi li pronuncia, ma in questo caso è facile capire anche per chi non lo ha conosciuto.
Don Donato Perron, uno dei suoi amici e collaboratori per tutta la vita a Roma, ricorda che “quando predicava si trasformava, alzava la voce. E quando pregava sembrava ‘vedere’ ciò che pregava”. Ora che anche i preti quando predicano finiscono spesso per presentare il cristianesimo come una difficoltà aggiuntiva alla normale vita, leggere le omelie di Tantardini (sorpresa: sono brevi, pochi minuti) è una scoperta. “Se si eseguisse un sondaggio sulla percezione che l’italiano medio ha delle omelie ascoltate in chiesa i risultati, probabilmente, sarebbero poco confortanti”, ha scritto con amabile ironia Lucio Brunelli presentando il libro sull’Osservatore romano. Le parole di questo sacerdote lombardo possono invece essere una scoperta anche per chi voglia solo capire qualcosa del cristianesimo. Sono “l’eredità più preziosa di un vivace discepolo di don Giussani” (Brunelli).
C’è poi un prezioso profilo biografico curato da Massimo Borghesi che è occasione per conoscere, o ri-conoscere, una figura che ha avuto a lungo un ruolo importante per Comunione e liberazione, nel rapporto filiale con don Giussani, ma anche nelle vicende della chiesa degli ultimi decenni. “Personalità vulcanica e anche controversa”, scrive Brunelli, “ma è innegabile la quantità e la qualità dei frutti spirituali che il suo servizio sacerdotale ha generato”.
Nato a Barzio, fra i monti sopra Lecco, aveva frequentato il grande seminario di Venegono, lo stesso di Giussani, e proprio lì attraverso l’amicizia con Angelo Scola, futuro cardinale e arcivescovo di Milano, aveva conosciuto l’esperienza di Cl, assieme ad altri seminaristi che sarebbero poi diventati animatori del movimento. La prima missione fu da coadiutore a Lissone, in Brianza, un pugno di mesi in cui suscitò tra ragazzi per la maggior parte già lontani dalla chiesa un’esperienza cristiana potente. “Abbiamo cercato la pioggia e il Signore ci ha mandato l’uragano”, scrisse commosso nel suo diario il parroco. Mandato a Roma, per specializzarsi in diritto canonico, subito iniziò un lavoro di testimonianza nelle scuole e in università. Nel 1974 diviene assistente per la pastorale dell’Università di Tor Vergata. Il clima era particolarmente duro. Ma il fascino di quel giovane sacerdote, non ancora trentenne, sbriciolava il dogmatismo.
“Negli anni ’70, fra mille ingenuità, contaminazioni ideologiche, militanze esagerate e botte prese a destra e a manca, poteva accadere di trovare don Giacomo con un gruppo di studenti universitari in preghiera, la domenica pomeriggio”, ricorda Brunelli. “Una grazia anche assistere al fenomeno incredibile di decine, poi centinaia, infine migliaia di persone che seguendo l’esperienza di don Giacomo scoprivano ex novo la fede cristiana o vi tornavano in modo più consapevole”. La storia impetuosa di questo “figlio del tuono” non è frutto soltanto di capacità personali, ma di una figliolanza con don Giussani in una comune una percezione della fede. Mentre la chiesa in crisi cercava idee culturali, proponeva piani pastorali, il fondatore di Cl già spiegava, non sempre puntualmente compreso nemmeno dai suoi, che era giunto il tempo di passare “dall’utopia”, anche quella cristiana, alla “presenza”, la testimonianza della fede semplice.
A Tor Vergata don Giacomo incontrava ragazzi per cui il cristianesimo, come tradizione, come morale, le stesse preghiere, non era più nulla: “Come diceva Péguy, nuovi cristiani nella prima era post-cristiana”. Sono gli anni, gli ’80, i ’90, in cui invece molta parte del mondo cattolico sogna riconquiste per via culturale. Un tentativo, o una tentazione, concreta. Invece nel 1980 Giussani già diceva a Testori: “Questo è il tempo della rinascita della coscienza personale. E’ come se non si potessero far più crociate o movimenti (…) Crociate organizzate; movimenti organizzati”. E dopo il referendum sull’aborto aveva detto ai suoi ragazzi: “Questo è il momento in cui sarebbe bello essere solo in dodici in tutto il mondo”.
La sintonia di don Giacomo con questi giudizi era totale. Venivano diffusi negli articoli del Sabato contro il “pelagianismo”, o sulla gnosi che riemergeva in una chiesa imbambolata dalla New Age, nei giudizi su una politica cattolica disperatamente alla ricerca di egemonie perdute. Non sempre condivisi. Anni tumultuosi. Come con una bella testimonianza scritta a Borghesi ha riconosciuto l’antico amico Scola: “L’itinerario con cui vivemmo l’appartenenza al movimento e alla paternità di don Giussani fu differente e a volte, soprattutto negli anni dell’impegno pubblico fino alle prese di posizioni politiche, sembrò metterci in opposizione. Eppure, come un diamante che non si scalfisce neanche davanti ai colpi più aggressivi, la nostra amicizia resistette, generata da una stima a-priori e dalla sconfinata gratitudine alla stessa paternità”.
Ciò che una ventina di anni dopo è incominciato a balenare nella testa a molti, l’epoca post cristiana – ma cosa è stato il pontificato di Benedetto XVI se non l’insegnamento alla Chiesa a essere “minoranza creativa” convocata dalla “grande gioia” dell’incontro con Cristo? – era già chiaro allora a Giussani e alla riflessione vissuta da Tantardini con creatività anche con la rivista 30Giorni, che per due decenni fu il più diffuso – in cinque lingue – strumento di dialogo teologico nella Chiesa. Portando alla ribalta ad esempio la ri-comprensione attuale di Agostino.
Ma al di là dei giudizi, dell’impegno pubblico, questo sacerdote entusiasta, con lo sguardo di un bambino, diventa comprensibile a tutti attraverso le sue omelie, che sono preghiere e a tratti sembrano poesie. In una messa concelebrata con padre Pepe, il prete delle villas miseria amico di Bergoglio, dice: “Le opere di misericordia chiaramente non si possono imporre, ma che miracolo grande quando la Chiesa si avvicina alla Chiesa dei primi cristiani che mettevano tutto in comune”. Scriveva il suo parroco don Dario di Lissone: “Ride sempre, ha un bel carattere piacevole, profondo senso dell’umorismo e due occhioni da adolescente, incantatori. Prega come un angelo, molto adagio, e predica con trasporto che ha incontrato il Cristo e gli ha trasformato la vita”.