Vi propongo il video e il testo di una lezione che ho tenuto il primo luglio all’interno del ciclo di incontri “L’io, il potere, le opere”, realizzato e promosso da Associazione Italiana Centri Culturali, AVSI, Banco Alimentare, Banco Farmaceutico, Compagnia delle Opere, DIESSE, DISAL, Cdo Opere Educative-FOE, Il Rischio Educativo, Meeting di Rimini, Portofranco e con il supporto scientifico della Fondazione per la Sussidiarietà e organizzativo di Cdo Opere Sociali.
L’argomento della mia relazione riguardava il terzo punto: le opere sociali e la loro genesi, profondamente legata alla carità e specificamente al gesto di “caritativa” promosso negli anni Cinquanta da don Giussani nelle cascine della Bassa Milanese (foto Elio Ciol).
Le “opere” in don Luigi Giussani
1. Partire dalla carità. Il modello della Bassa milanese
Il tema delle “Opere” in don Giussani può essere compreso solo contestualizzandolo storicamente all’interno di un processo educativo. Negli anni ’50-’60, in riferimento ai giovani di Gioventù Studentesca, il problema non si pone ancora. Ciò che è centrale è la messa a fuoco dello spirito da cui poi sorgerà la possibilità delle Opere: la carità. Si tratta di una delle tre dimensioni che, insieme alla cultura e alla missione, qualificano, a partire dal 1958, l’orizzonte di GS.
Come espressione concreta della carità la Gioventù Studentesca milanese proporrà, alla fine degli anni ’50, la caritativa nella Bassa, una zona di periferia segnata da povertà e da disagio sociale. Essa coinvolse centinaia di giovani i quali non dovevano avere come scopo quello di «salvare la Bassa», ma di imparare in concreto cosa significasse la carità. Marta Busani, nel suo bel volume su Gioventù Studentesca, ne ha offerto una panoramica ricca e articolata[1]. La preoccupazione di Giussani era quella di introdurre i giovani ad un nuovo stile di vita, non già quella della risoluzione dei gravi problemi sociali, un obiettivo che trascendeva possibilità e mezzi dei suoi ragazzi.
La finalità è la stessa che il giovane Jorge Mario Bergoglio aveva sviluppato nel suo lavoro educativo presso il Colegio Máximo di San Miguel, di cui era rettore, tra il 1978 e il 1986.
«Quando ero a San Miguel – scrive il futuro Papa –, mi accorsi che il territorio era carente di cura pastorale. Questo mi disturbò, e cominciammo ad occuparci dei bambini: i sabati pomeriggio insegnavamo loro il catechismo, poi li facevamo giocare e così via»[2]. Il biografo del Papa, Austen Ivereigh, commenta in proposito che l’«essere all’attivo servizio dei poveri nel corso di missioni del fine settimana nei quartieri locali avrebbe permesso agli studenti gesuiti di stabilire un legame con il santo pueblo fiel de Dios, il “santo popolo fedele di Dio”, e di radicarsi nella realtà»[3]. Tanto in Bergoglio quanto in Giussani, l’attività caritativa era mirata non a supportare un progetto di trasformazione sociale, ma all’educazione di coloro che operavano nella carità. Era questo lo scopo a cui mirava il libretto del 1961 Il senso della caritativa[4]. Di fatto è nei casolari e nelle aie della Bassa che miriadi di giovani della Milano bene impararono cosa poteva significare condividere con gli altri. Lo ricorderà a distanza di molti anni Giuliano Pisapia, sindaco di Milano dal 2011 al 2016:
Ogni domenica andavamo nella Bassa milanese, una zona economicamente depressa. Nelle cascine facevamo vita di condivisione, si mangiava e si giocava. Poi parlavamo anche di fede, ma senza nessuna pretesa di indottrinamento […]. Senza Giussani non so se avrei capito il senso di stare dalla parte dei deboli. E poi mi ha insegnato che l’esperienza conta di più di qualsiasi lettura. È un valore che ho ritrovato nella sinistra. Ma la prima volta che mi fu chiara fu in quei cortili della Bassa milanese[5].
Di quella esperienza ci rimangono le stupende foto in bianco e nero di Elio Ciol, al centro della mostra sulla Bassa il 2 giugno 1964 a Milano visitata dal cardinale Giovanni Battista Montini, recentemente riproposte nel volume curato da mons. Massimo Camisasca L’avventura di Gioventù studentesca[6]. Rimane, soprattutto, la lezione di metodo: quella per cui l’essenziale gratuità che sta al centro della carità non poteva risolversi in nessun progetto di liberazione. Da questo punto di vista il modello della Bassa, nonostante non venga replicato nel passaggio da GS a Comunione e Liberazione, mantiene il suo valore normativo. Non sorprende allora ritrovarlo riproposto nell’importante discorso rivolto agli universitari di CL, nell’ottobre 1976 a Riccione, laddove il modello della “Presenza”, cioè di una testimonianza fondata sulla carità, viene contrapposto all’“Utopia”, al progetto di trasformazione fondato sull’ideologia.
La presenza iniziale del movimento nel ‘54 era un interessamento ai compagni di scuola, e a partire da quel gesto di amicizia abbiamo creato una struttura grande di caritativa: mille persone ogni domenica andavano nei cascinali della Bassa milanese, con sacrifici rilevanti, non per un progetto politico, bensì per una condivisione del bisogno (le famiglie della zona vivevano in condizioni disagiate). Lottare per qualcosa che non esiste ancora è la più grande illusione e quindi la sorgente più terribile di delusione nella vita[7].
La presenza nella Bassa veniva quindi motivata «non per un progetto politico, bensì per una condivisione del bisogno». Questa distinzione critica è la bussola con cui verranno giudicate le Opere e il livello politico di CL. Come dirà Giussani a Giorgio Vittadini nel 1985: «A che cosa servono tutte le analisi e i discorsi di MP [Movimento Popolare], se poi nessuno aiuta i nostri amici di Alcamo a vendere il vino che producono? Occorre mettersi a disposizione di ciò che c’è, perché possa essere aiutato a vivere»[8]. Il Movimento Popolare, nato come espressione pubblica di CL, doveva avere come suo fine essenziale la promozione di Opere e la valorizzazione di Opere esistenti. Lo ribadisce nel 1986 nella sua intervista a Robi Ronza:
Il Movimento Popolare era stato concepito e proposto come un possibile ambito di convergenza dei cattolici di qualunque matrice orientato innanzitutto alla creazione di una trama di opere sociali. […] Il Movimento Popolare, insomma, venne originariamente inteso come ripresa del Movimento cattolico. […] [Purtroppo] l’esigenza della situazione politica italiana alla metà degli anni ‘70 […] ha fatto confluire tutte le energie di coloro che agivano nel Movimento Popolare su obiettivi di tipo politico, o più precisamente, di tipo elettorale. Abbiamo così perduto molti anni[9].
Giussani auspicava un ritorno alla «originaria chiaroveggenza», cioè all’«impegno per la creazione di una trama di opere sociali liberamente collegate tra loro, con lo scopo di illuminarsi e di sostenersi vicendevolmente»[10]. MP non doveva ridursi ad essere una corrente politica ma doveva concepirsi come «federazione di opere»[11].
2. L’Opera come risposta al bisogno del lavoro
La Cdo (Compagnia delle Opere) sorge l’11 luglio 1986. «L’obiettivo primario di questa compagnia è favorire la nascita di opere sociali. Opere sociali che, secondo la tradizione del movimento cattolico, rispondono ai gravi problemi della nostra società: in particolare a quello della disoccupazione giovanile, che rappresenta un autentico attentato alla dignità di milioni di persone»[12].
Il tema del lavoro, unitamente a quello di libertà di associazione e di educazione, è al centro della prospettiva sociale di don Giussani. Nel corso degli anni ‘80, gli anni che vedono l’imporsi del neocapitalismo finanziario che dominerà nell’era della globalizzazione, gli interventi sul tema sono molteplici. A motivare e a fondare questa preoccupazione – la centralità del lavoro – concorre anche la pubblicazione della importante enciclica di Giovanni Paolo II, la Laborem exercens uscita il 14 settembre 1981, centrata sull’aspetto antropologico del lavoro. L’8 marzo 1986 Giussani tiene una conferenza nella Large Meeting Room della cattedrale di San Patrick a New York. Qui, rispondendo ad una domanda sui valori della tradizione occidentale, dirà che essi sono mutuati dal cristianesimo. Tra essi, oltre alla libertà e al progresso, «il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo; il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come l’attività del Padre, di Dio; il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo fra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura»[13]. Nello stesso arco di tempo, nella sua intervista a Ronza il quale gli chiede quale valore segua quello della libertà di educazione, così risponde:
Non segue, ma ha il medesimo grado di urgenza la libertà di lavorare, ovvero la lotta alla disoccupazione. Non ci si può arrendere tranquillamente al fatto che la riorganizzazione dell’economia avvenga oggi a spese dell’occupazione. Occorre fare ed occorre studiare instancabilmente per trovare una via d’uscita a questo stato di cose, che è umanamente insopportabile. È chiaro che il problema riguarda noi come una miriade di altri soggetti, né possiamo ragionevolmente prevedere di avere in futuro un potere tale da consentirci di influire significativamente su un problema che, come ormai tutto quanto si pone a livello economico, ha dimensioni mondiali. Tuttavia ognuno deve fare la propria parte, e almeno per quanto ci riguarda lo scopo che ci poniamo, che è quello di non subire tamponando, ma di partecipare a qualsiasi forma seria ed economicamente vitale di lotta alla disoccupazione. Senza aspettare che cambi il mondo si può cominciare a cambiare qualche cosa insieme[14].
Secondo Giussani:
Per comporre questo drammatico dilemma occorrerebbe andare al nocciolo del problema, ossia alla concezione dell’«io» e della società. Occorrerebbe insomma procedere verso una concezione dell’«io» e della società (del tutto diversa da quella oggi predominante) in cui l’«io» sia quello che la Laborem exercens propone. Se non cambia qualcosa a questo livello alcune conseguenze diventano inevitabili. Per esempio diventa inevitabile che un gran numero di operai venga trattato come se fosse del macchinario obsoleto. Tutta la società, o almeno tutta la comunità ecclesiale, dovrebbe farsi carico in ogni senso di questo problema come del più grande e grave bisogno irrisolto del nostro tempo. Tutti quelli, che nel Vangelo si chiamerebbero i grandi della terra, ci stanno dicendo che la disoccupazione di massa è un prezzo inevitabile del nostro sviluppo. Ebbene la prima cosa che dobbiamo fare è non lasciarci convincere da questa pretesa inevitabilità. Soltanto se una simile convinzione non dilaga, la ricerca delle vie d’uscita, sia immediate che di lungo periodo, non verrà meno.[15]
Si tratta di affermazioni di grande rilievo che coincidono, alla lettera, con la critica al modello economico del trickle-down (cascata-gocciolamento-ricaduta) che ritroviamo nel paragrafo 54 di Evangelii gaudium. In esso papa Francesco scrive: «In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza»[16].
Quello che Giussani auspicava, negli anni ’80-‘90, è un movimento di libertà-lavoro-giustizia mosso dalla solidarietà – da una pietas per l’uomo – la cui origine è la carità.
Troviamo conferma di questa prospettiva nei documenti di CL e della Cdo di quegli anni. Nel 1989 il numero 4 dei grandi quaderni di Litterae Communionis ha come titolo Le opere. La fede senza le opere è morta. La gran parte delle iniziative elencate costituisce una risposta ai bisogni determinata da uno spirito caritativo. Nel 1990 la Cdo pubblica un quaderno dal titolo La carità è. Le opere che cambiano la vita con una introduzione di Pier Alberto Bertazzi e di Giancarlo Cesana. Si tratta del titolo del Convegno che si tiene il 27 gennaio 1990 al Palalido di Milano con Giussani e il cardinale Carlo Maria Martini. Ne rimane una foto nel volume di Savorana, tra le pagine 894 e 895.
In precedenza, il 25 ottobre del 1986, a Tarcento, Giussani affermava:
«La carità aggiunge alla solidarietà la consapevolezza di un’imitazione del Mistero dell’essere […]. Allora la carità è un’opera. Rende la solidarietà un’opera, in quanto crea un soggetto nuovo. […] Soggetto equivale a dire: creatore. L’uomo diventa creatore, cioè immaginatore e realizzatore di opere. L’opera esige un soggetto»[17]. L’opera esige un soggetto ed è per un soggetto. Ciò significa che senza il soggetto l’Opera non è più Opera. Una rete di opere, una struttura, può diventare una gabbia. O, nella migliore delle ipotesi, una mera rete di interessi. Ciò che possono fare tutti. Al cristiano è richiesto qualcosa di diverso. Egli imita il Padre che è l’«eterno lavoratore». Il creatore è l’eterno lavoratore[18]. Lavorare è cambiare la realtà, è dimostrare di essere, di esistere. Così l’operare, il cambiare la vita e la storia, il realizzare miracoli, è il modo in cui Dio si dimostra esistente. È l’intuizione che guida una delle più belle riflessioni di don Giussani, quella raccolta nel volumetto È se opera, edito nel 1994[19].
Il soggetto delle Opere è creatore perché imita il Padre. Questa creatività si dimostra in un’amicizia operosa in grado di affrontare i bisogni, qualunque tipo di bisogni. L’Opera è la manifestazione di un soggetto che educa se stesso operando. Educa se stesso, divenendo un soggetto creatore, permanendo nella carità che è un’Opera. In tal modo, come afferma Giussani a Tarcento il 25 ottobre 1986,
«in questa percezione di sé l’individuo, sollecitato nella sua capacità di compassione dall’incontro con un bisogno umano, acquista un’’educazione, si stabilizza in un habitus permanente: come si comporta di fronte al bisogno, così incomincia a capire che allo stesso modo deve comportarsi con sua madre, con suo padre, con la moglie, con il marito e con i figli, con tutti. Quando l’impegno con il bisogno non rimane pura occasione di una reazione compassionevole, ma diventa carità, cioè coscienza di appartenenza a una unità più grande, imitazione nel tempo del mistero infinito della misericordia di Dio, allora l’uomo diviene per l’altro uomo compagno di cammino. Diventa cittadino nuovo»[20].
3. I tre motivi che rendono fondamentale un’Opera
È interessante notare come la riflessione di Giussani sulle Opere non sorga dal nulla, da un progetto ideologico. Esso è il risultato della maturazione dell’esperienza degli universitari del CLU i quali con la sigla CP, cattolici popolari, avevano già tentato di affrontare necessità quali l’alloggio, il diritto allo studio, le dispense e i libri di testo, le mense. Ciò che non era presente nella giovanile esperienza nella Bassa milanese appare ora possibile. Giussani si dimostra ora interessato alle Opere perché esse non si sovrappongono ad un processo educativo, come poteva accadere negli anni ‘50, ma ne rappresentano piuttosto la naturale espressività. Le Opere appaiono fondamentali per l’uomo, per l’uomo di fede in particolare, per almeno tre motivi.
Il primo è dato dal fatto che l’uomo si realizza e conosce se stesso solo operando. È ciò che afferma, seguendo Tommaso d’Aquino, il paragrafo 2 del capitolo quarto de Il senso religioso: “L’io-in-azione”[21]. Ciò che in quel contesto poteva risultare un passaggio tipicamente speculativo trova una sua esemplificazione e una sua chiarificazione nel lavoro. Se l’uomo si conosce operando e se lavorare è operare allora l’uomo senza lavoro è un uomo alienato, un uomo che non può conoscere se stesso, i suoi talenti, le sue inclinazioni. È alla Assemblea Nazionale della Cdo del 25 maggio 1996 che Giussani afferma:
Vedere, per esempio, un disoccupato (per citare la piaga terribile di oggi, quella socialmente più grave) non può farmi star fermo, se ho la fede. Si, se ho una certa sensibilità umana! Dico che la fede favorisce questa sensibilità. “Disoccupato” vuol dire uno che non lavora; nella misura in cui uno non lavora, non capisce più se stesso. Dice san Tommaso d’Aquino che l’uomo capisce se stesso osservandosi nel lavoro mentre lavora, in opera[22].
In precedenza, il 25 marzo 1995, sempre parlando all’Assemblea Nazionale della Cdo, Giussani aveva ribadito la sua
stima sincera per il lavoro, stima sincera per il lavoro che ha la sua prova del nove, ed è l’insofferenza (non nel senso rabbioso, ma nel senso etimologico della parola: non si può stare tranquilli) per la disoccupazione di tanti altri. Che tanti non abbiano lavoro non può lasciare tranquillo me oggi. Non posso essere contento del mio lavoro, che va bene e mi dà risultati, e basta. La stima sincera per il lavoro, innanzitutto, dà un’intollerabilità al fatto che altri non lavorino, perché l’educazione alla libertà è astratta se un uomo non ha un lavoro da imparare. È nella realizzazione del mio lavoro che capisco di essere libero, di essere lasciato libero, che la mia libertà è rispettata, e capisco quando invece tutto è bloccato, ridotto, ristretto, inadeguatamente definito, predefinito. È impossibile che avvenga l’educazione alla libertà senza la possibilità di un lavoro. Spiegavo ai ragazzi che un uomo disoccupato soffre un attentato grave alla coscienza di se stesso, secondo un principio di san Tommaso, il quale dice che l’uomo conosce se stesso in azione. L’uomo non conosce se stesso quando si mette lì e pensa a se stesso (occorrerebbe in tal caso una oggettività che pochi raggiungono attraverso una educazione filosofica adeguata), ma percepisce il suo valore, le sue facoltà, quello di cui è capace, lavorando, in actu exercito, come dice san Tommaso d’Aquino. Un uomo conosce se stesso solo in azione, durante l’azione, mentre è in azione. Perciò, se la vita non ha lavoro, uno conosce meno se stesso, smarrisce il senso del vivere, tende a smarrire il senso del perché vive. Dobbiamo fare di tutto per collaborare alle forze sociali e politiche che mirano a trovare un lavoro per tutti![23].
Oltre il lavoro, nello stesso intervento vengono richiamate anche la libertà di educazione e la giustizia. La conclusione è che «noi siamo certi dell’aldilà perché amiamo l’aldiqua, per un’esperienza che facciamo nell’aldiqua: amiamo il mondo»[24].
Il secondo motivo per cui l’Opera è essenziale per la fede è che in essa avviene la “sutura”, l’incontro tra cristianesimo e storia. Nell’Opera si supera il fossato tra fede e storia. Parlando ad Imola, il 17 gennaio 1988, don Giussani ricordava uno dei protagonisti del socialismo italiano, Andrea Costa, il quale seduto fuori della Chiesa, attendeva gli uomini che andavano a messa per rivolgere poi loro le seguenti parole: «Siete stati in chiesa; avete fatto bene. Adesso parliamo delle cose che interessano la vita di tutti i giorni. Parliamo dei soldi che dobbiamo ricevere, della terra che dobbiamo lavorare»[25]. E Giussani commentava: «È mancato allora il rapporto […] tra l’altare e quella sedia, perché è parte dell’uomo non solo il problema della salvezza, ma anche il problema del pane quotidiano»[26]. La salvezza dell’uomo «implica l’aldiqua e l’aldilà. La missione della Chiesa è far vivere meglio anche l’aldiqua»[27]. La Chiesa non contrappone la salute alla salvezza, come avviene nel romanzo La peste di Albert Camus. Abbraccia entrambe in una visione integrale dell’uomo.
Il terzo motivo che induce Giussani alla valorizzazione dell’Opera è che è in essa, nella condivisione dei bisogni da parte di un’amicizia operosa, che sorge un popolo. È in essa che la carità genera una città nuova. Come afferma nella Assemblea Nazionale della Cdo del 14 marzo 1992: «Questa è l’origine dell’opera: il tentativo di rispondere sistematicamente a un bisogno che urge la propria vita nell’ora, nella giornata. Ma come non si può nascere da soli e come non si può vivere da soli, così non si può rispondere al proprio bisogno – qualunque esso sia, anche quello che sembra più singolare possibile – se non in una compagnia, se non con l’aiuto di una compagnia»[28]. Una compagnia che è governata dalla legge della carità.
Si chiama carità. Gratuitamente aiutare il proprio vicino, un uomo, a risolvere e a rispondere al bisogno che ha, di qualunque natura esso sia: da quello del pane fino a quello dell’anima. Risolvere, o aiutare a risolvere il bisogno per il quale un uomo piange e soffre. […] La carità è un fattore che contesta e penetra tutti gli altri fattori, la carità è più grande di tutto. Essa genera un popolo che non può sorgere se non da qualcosa di gratuito. Calcoli ben fatti non possono erigere il fenomeno più alto dell’espressione umana che è la realtà di un popolo. Solo qualcosa di gratuito può farlo nascere[29].
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[1] M. BUSANI, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Studium, Roma 2016, pp. 126-137.
[2] Cit. in A. IVEREIGH, Tempo di Misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Mondadori, Milano 2014, p. 167.
[3] Ibidem.
[4] L. GIUSSANI, Il senso della caritativa, a cura di Gioventù Studentesca, pro manuscripto 1961, nuova ediz. in. ID., Realtà e giovinezza. La sfida, a cura di J. Carrón, Rizzoli, Milano 218, pp. 243-248. Si cfr. La legge della Bassa, Appunti di una riunione di Gioventù Studentesca di Milano del 20 dicembre 1959 dedicata alla caritativa, Supplemento a «Tracce», 11, dicembre 1998.
[5] G. PISAPIA, Giussani, l’ancora della carità, intervista a cura di Giuseppe Frangi, «Vita» (23-02-2005).
[6] M. CAMISASCA, L’avventura di Gioventù studentesca, prefazione di J. Carrón, Mondadori Electa, Milano 2018.
[7] Un avvenimento di vita, cioè una storia, Interviste e conversazioni con Luigi Giussani, a cura di C. Di Martino, Introduzione del cardinal Joseph Ratzinger, Edit – Il Sabato, Roma 1993, p. 134.
[8] A. SAVORANA, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2014, p. 709.
[9] L. GIUSSANI, Il movimento di Comunione e Liberazione, conversazioni con Robi Ronza, Jaca Book, Milano 1987,
- 161 e 162.
[10] Ivi, p. 162.
[11] Ivi, p. 164.
[12] L. GIUSSANI, Le opere: realismo e creatività della fede, intervento all’Assemblea Nazionale della CDO, Milano 4 marzo 1989, in ID., L’io, il potere, le opere. Contributi da un’esperienza, Marietti, Genova 2000, p. 159. Il tema era già significativamente presente nel primo dei quaderni delle Edizioni del Movimento Popolare: S. ALLEVATO – G. FOLLONI, Giovani e occupazione. Una sfida alla coscienza del paese, Milano 1976.
[13] A. SAVORANA, Vita di don Giussani, cit., p. 700.
[14] L. GIUSSANI, Il movimento di Comunione e Liberazione, conversazioni con Robi Ronza, cit., p. 168.
[15] Ivi, pp. 168-169.
[16] PAPA FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 54.
[17] A. SAVORANA, Vita di don Giussani, cit., pp. 709-710.
[18] Cfr. ivi, p. 1044.
[19] L. GIUSSANI, È se opera, introduzione del cardinal Jean-Jérôme Hamer, Supplemento a 30 Giorni, 2 (1994).
[20] L. GIUSSANI, La carità si fa opera, in ID., L’io, il potere, le opere, cit., p. 127.
[21] L. GIUSSANI, Il senso religioso, Jaca Book, Milano 1986, pp. 52-54.
[22] L. GIUSSANI, Di fronte al bisogno, un’ipotesi positiva, in ID., L’io, il potere, le opere, cit., pp. 143-144.
[23] L. GIUSSANI, Educazione alla libertà, in. ID., L’io, il potere, le opere, cit., pp. 118-119.
[24] Ivi, p. 123.
[25] A. SAVORANA, Vita di don Giussani, cit., p. 762.
[26] Ivi, p. 763.
[27] Ibidem.
[28] L. GIUSSANI, Le opere nascono solo quando uno ha il coraggio di dire «io», in ID, L’io, il potere, le opere, cit., pp.
100-101.
[29] L. GIUSSANI, Creare una casa più abitabile per l’uomo, in ID., L’io, il potere, le opere, cit., p. 132.