di Massimo Borghesi. Pubblichiamo un saggio comparso come presentazione del catalogo AMERICO MAZZOTTA, “La dimensione della memoria”, in occasione della mostra dal medesimo titolo tenutasi dal 25 agosto all’8 dicembre 2014 presso Castel Sigismondo di Rimini. Vedi il sito internet di Americo Mazzotta (https://americomazzotta.com/)
Nelle grandi opere di Americo Mazzotta c’è il respiro della storia. Un respiro contro l’onda, oltre l’onda che trascina l’estetica odierna. L’arte contemporanea non è più capace di epos. L’egemonia delle correnti “astratte”, di quelle espressionistiche e di quelle geometriche, ha determinato, con la loro fuga dallo spazio e dal tempo, un vuoto “narrativo” che segna la produzione artistica degli ultimi 70 anni. E’ nel secondo dopoguerra che l’Occidente, in antitesi al neoclassicismo dei passati regimi nazi-fascisti e al realismo socialista dei Paesi dell’Est, ha optato, unilateralmente, per l’astrazione, per un’arte aniconica nemica della rappresentazione. Con ciò ha perso, però, il ponte con la storia. Un ponte mantenuto dalle nuove arti- il cinema e la fotografia in primis – nelle quali le immagini (e la musica) assumono, spesso, il valore di testimonianza storica, di documento di denuncia, di grande affresco di un’epoca. Così di fronte ad un’arte astratta che celebra la sua modernità nei salotti o nelle gallerie di Londra e di Manhattan sta l’altra arte moderna, quella del cinema e della fotografia, che prosegue il ruolo storico dell’arte, quello “iconico” legato alla memoria e al tempo. La prima, quella dominata dal primato della pittura, può, tutt’al più, convertirsi nel realismo della Pop Art, non già, però, presumere di tornare alla narrazione. E’ la tesi di uno dei più illustri critici d’arte, Arthur C. Danto, espressa nei suoi saggi After the End of Art, del 1984, e in After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History del 2008[i]. Per Danto la “fine dell’arte” è la fine di una storia dell’arte che si dispiega nella forma di una narrazione razionale.
La storia dell’arte occidentale si divide in tre diversi periodi: tradizionale, moderna e contemporanea. L’epoca presente, che chiamo contemporanea in opposizione a quella moderna, non è retta da nessuna grande narrazione. Se pensiamo che l’arte debba essere sorretta da ossature narrative forti, ebbene esse si sono esaurite con l’arte moderna. L’arte che dobbiamo imparare a comprendere senza l’ausilio di un métarécit è l’arte dopo la fine dell’arte, quella che riflette la nostra epoca.
Una convinzione, questa, a cui Danto è pervenuto dopo lo shock provocato in lui dall’affermarsi della Pop Art negli USA degli anni ’60. Una sorta di nuovo realismo che segnava il declino della corrente astratta. Diverso, però, da quello di Edward Hopper. La Pop Art è l’espressione di un “realismo capitalista”, l’assunzione gloriosa degli oggetti del mercato e della moda idealizzati come feticci. Siamo, con ciò, di fronte alla trasfigurazione del banale[ii]. Come scrive Danto:
La pop art in quanto tale, infine, consiste in quella che descriverei come una trasfigurazione dei simboli della cultura popolare nell’arte alta. […]. La pop art era entusiasmante, perché era trasfigurativa. C’erano tantissimi fanatici che riservavano a Marilyn Monroe lo stesso trattamento di una stella del teatro o dell’opera. Warhol la trasfigurò in un’icona collocando il suo bel viso su un campo dorato. La pop art in quanto tale fu un traguardo strettamente americano e penso che sia stata la capacità di trasfigurarsi della sua intuizione fondamentale a renderla così sovversiva all’estero. Quello di trasfigurazione è un concetto religioso in cui si indica l’adorazione dell’ordinario, come nel Vangelo secondo Matteo, dove ricorre per la prima volta con il significato di adorare un uomo come dio[iii]
Le osservazioni di Danto consentono di comprendere le ragioni per cui l’arte contemporanea non è più capace di epos, di métarécit. Stretta nell’antitesi tra astrazione e Pop Art, tra fuga dal mondo e glorificazione del mondo effimero, l’arte non è più capace di rapportarsi al reale, di sublimarlo. Non è né critica, che l’astrazione non è in grado di criticare alcunché, né autentica trasfigurazione. Come a dire che è senza storia.
E’ in questo contesto che va colta l’originalità della produzione artistica di Americo Mazzotta, un pittore di grande talento la cui sensibilità moderna torna a parlare il linguaggio della storia. Come scrive nella nota che accompagna l’esposizione delle sue opere al Meeting 2014: «Cosa fa un pittore? Prima di tutto un pittore guarda e su quello che vede, con l’arte sua, dà un giudizio umano sulla realtà e il giudizio non può prescindere dalla Memoria e dalla Storia»[iv]. Il pittore non vive isolato, fuori dal mondo, né i suoi interlocutori hanno a che fare solo con le gallerie, le mostre, lo spazio “separato” dell’arte. L’arte vive nel mondo, del mondo, per il mondo. Il suo orizzonte può essere metastorico solo in quanto è essenzialmente storico. «Così una storia, non come analisi deterministica e giustificativa, ma come sommatoria di coraggiose memorie, costituisce la base e il punto di riferimento necessari ad un’arte che ritrova lo stupore, il senso del rischio e la forza di diventare linguaggio comune nel quale riconoscersi»[v]. Questo “linguaggio comune” è, da un lato, la meta spezzata dal linguaggio dell’astratto, aristocratico ed incomunicabile, e, dall’altro, l’esito mistificato del linguaggio consumistico che, nella Pop Art, fa dell’arte un linguaggio commerciale, uno spot pubblicitario. Per Mazzotta «le ipotesi artistiche più in voga in questi ultimi anni si sono dimostrate essenzialmente mute, non parlano; non comunicando che se stesse non riescono a diventare “segno”»[vi]. Procedendo, programmaticamente, per opposizione, o per apologia dell’esistente – il “realismo capitalista” – l’arte non rimanda ad “altro”, perde il rapporto con l’ulteriorità, sprofonda nell’immanenza.
Si è venuta così a creare un’arte estranea, non necessaria, la cui sola qualità permessa e ricercata con volontà suicida è di essere “strana”, “mai vista”, “efficace”, “tecnica”, “razionale”, “economica”. Abbiamo così un’arte che si mostra ora donna barbuta, ora nana, ora giocoliera, ora splendida nel suo immobile estetismo; ma mai umana, mai vitale e sempre decisamente “iconoclasta”: altre volte completamente e certamente mostruosa[vii] .
Nell’itinerario artistico di Mazzotta la scoperta di un “linguaggio comune” ha coinciso con la riscoperta della storia. Non una scoperta “archeologica”, meramente erudita.
Non vedo l’arte come un recupero della memoria storicistica; ciò sarebbe in qualche modo istituzionalizzarla e razionalizzarla e si ricadrebbe in un processo mortale. La memoria non si recupera, la si incontra, la si agisce. […] . Così è accaduto che nel mio peregrinare per le periferie del mondo abbia incontrato isole di umanità, oasi e fortezze che sussistono e che insieme costituiscono la testimonianza che la memoria non si è spenta e il desiderio di bene, di bello e di buono è pur sempre vivo nei popoli. Questo mi è accaduto nella periferia milanese a Redecesio di Segrate, a Oswieçim in Polonia, a Nairobi in Kenya, in Sicilia, a Fermignano di Urbino, all’Antella di Firenze e a Rimini[viii].
Di queste tappe la prima ricordata, quella di Redecesio di Segrate, nel 1983, ha un valore peculiare, fondante un tragitto artistico assolutamente originale. E’ lì in una parete spoglia della chiesa della Madonna del Rosario che Mazzotta stende una pittura murale di 147 mq, in monocromo e sanguigna, dedicato a “La battaglia di Lepanto”. L’evento, che segna l’inizio della devozione alla Madonna del Rosario, è raffigurato in toni altamente drammatici, in una tensione “geometrica” delle figure umane che si assiepano attorno a linee configgenti verso il centro: la croce che sovrasta l’altare. Sorge qui lo “stile” di Mazzotta, quello dei grandi affreschi a contenuto storico, in cui il realismo del disegno dispone la moltitudine dei volti e dei corpi lungo assi longitudinali e trasversali in un movimento scenico che ricorda le salite e le discese del Giudizio Universale, di quello michelangiolesco in primis. Le tonalità cromatiche, la mobilità delle scene, la moltitudine dei personaggi, tutto concorre all’ epos, al quadro drammatico che coinvolge chi guarda, lo rende partecipe di un evento che trova la sua soluzione nel crocifisso che occupa il centro della scena. Il ponte con la storia, intriso di dolore e di mistero, è trovato. Da qui parte il filo rosso che unisce tutte le grandi opere di Mazzotta. Fino al suo capolavoro, la decorazione della nuova chiesa di S. Giuseppe lavoratore ad Auschwitz, nel 1997. Qui la storia diviene cammino di redenzione attraverso il dolore. Ancora una volta, al centro, nelle vetrate absidali, sta il Golgotha, il Mysterium crucis, mentre le 14 finestre laterali rappresentano le stazioni della via crucis. Nell’abside il pittore raffigura il campo di concentramento, un corteo doloroso di ignudi che procedono silenti verso le camere a gas, rappresentazione iperrealistica degli uomini ombra, destinati alla cenere. Ancora una volta colui che guarda è coinvolto nella visione. Mazzotta non dipinge solamente un soggetto dato, lo rivive, lo rende presente. Rievocando i pensieri che hanno preceduto ed accompagnato la sua opera scrive:
Ho scelto due tonalità: la terra rossa di Pozzuoli e l’ocra calda d’Italia. Il tema che mi era suggerito era il PERDONO. Ora che ho terminato l’abside e dopo aver dipinto centonovanta figure su duecento metri quadrati di parete, solo ora, comincio a scoprire il tema che sul finire del 1993 mi era stato affidato … Ricordo di essermi posto la domanda: -che si fa?- Perché uno può solo dire questo. Là è morto tutto. Lo stesso suono della parola Auschwitz sembra ancora uccidere la parola uomo. […]. Questo luogo, Auschwitz, al centro dell’Europa è raccontato, disputato, censurato. […]. Tutto il mondo sa di questo “buco nero” che sembra inghiottire ancora oggi l’illusione di ogni speranza, di ogni bellezza,, perché ad Auschwitz sembra morta la consistenza dell’ethos europeo. Costruire questa chiesa, il porvi mano e farla bella e viva, non un monumento, ma una sede parrocchiale, è stato come accogliere un mandato a ripristinare e a riscoprire il nesso con il destino vero dell’Europa. Sicché i ricordi personali non potevano bastare, né l’impressioni, né lo scandalo che uno prova quando viene a contatto con quella realtà. Così mi sono messo a studiare. Di grande aiuto mi sono stati gli scritti di Francesco Ricci e Stanislaw Grygiel sull’Europa; la conoscenza della vita e delle opere di Massimilano Kolbe, di Edith Stein, di Primo Levi ed altri. […]. E poi le visite al campo. Quelle sempre, a vedere quei volti bellissimi; a scoprire, con stupore, le analogie con i nostri tempi. La sterilizzazione, l’eutanasia, la distruzione delle famiglie. La selezione … La commozione di fronte a quelle facce è stata il primo spunto. Guardandole pensavo a ciò che costituisce la vita di ogni uomo, la sua provenienza, gli affetti, le speranze, le amicizie, il lavoro, gli studi, i desideri che ciascuno porta con sé e costituiscono la nostra identità. Là tutto era reso informe e spariva inghiottito dai forni. Ma le facce sono restate e ti guardano. Non si finirebbe mai di contemplarle, come si fa con le persone care quando ti sono lontane[ix].
La confessione dell’artista è qui importante. Non si può essere “astratti”, né svagati cultori della Pop Art, dopo che si è visto, in fotografia, la galleria dolorosa dei volti di Auschwitz. La memoria, la commozione, il silenzio, rendono impossibile l’abbandono della storia. Qui visi sorridenti o mesti, ignari del destino, non possono essere obliati. L’arte ha un compito al cospetto della storia: trasfigurare non già l’effimero ma ciò che è mortale. L’arte non è redenzione ma anela alla redenzione. In essa, quando è autentica, brilla un lampo di redenzione. E’ quello che Mazzotta ha intuito, con grande sensibilità e maestria, a partire dal suo grande affresco del 1982 nella chiesa della Madonna del Rosario a Redecesio di Segrate, nei dintorni di Milano.
[i] Cfr. C, DANTO, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2008
[ii] Op. cit., p. 133.
[iii] Ibidem.
[iv] A. MAZZOTTA, Ad limen. La dimensione della memoria.
[v] Ibidem
[vi] ibidem
[vii] Ibidem
[viii] Ibidem
[ix] A. MAZZOTTA, La linea e la luce. Progetti bozzetti e disegni di opere realizzate e da realizzare, DGA Editor, Firenze 2005, p. 32.