Venerdì 26 aprile L’Osservatore Romano dedica una recensione a tutta pagina al mio volume “Il male necessario. L’etica del superuomo nel manicheismo romantico” (Orthotes 2024). La recensione è a cura di Giovanni Cerro. Ecco un profilo dell’autore e il testo della recensione.
Giovanni Cerro, dottore di ricerca in Filosofia, lavora presso i Centri Culturali della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Cultore della materia in Storia della filosofia presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha orientato i suoi interessi verso la storia delle idee, dedicando attenzione particolare al tema della crisi della modernità nella cultura europea tra Ottocento e Novecento. Il suo ultimo volume si intitola “Tra natura e cultura. Degenerazione, eugenetica e razza in Giuseppe Sergi (1841-1936)” (Edizioni ETS, 2024)
«Il male necessario. L’etica del superuomo nel manicheismo romantico» di Massimo Borghesi
L’Osservatore Romano, 26 aprile 2024, Sintesi pericolosa dei contrari (Giovanni Cerro)
Da dove deriva la nostra familiarità con il male? Perché lo consideriamo talvolta necessario e arriviamo a giustificarlo con gli strumenti della ragione? Perché siamo assuefatti alla violenza a cui assistiamo quotidianamente? A queste domande cerca di rispondere Massimo Borghesi, già professore di Filosofia morale presso l’Università di Perugia, nel suo recente libro Il male necessario. L’etica del superuomo nel manicheismo romantico (Napoli, Orthotes, 2024, pagine 228, euro 23). Confrontandosi con grandi autori del passato — da Hegel a Guardini, da Schopenhauer a Croce, da Praz a Ernst Bloch — Borghesi delinea una genealogia della fascinazione umana per il male, rintracciandone l’origine nel processo di secolarizzazione che avrebbe avuto luogo nella seconda modernità europea. A differenza delle letture dominanti, che tendono a individuare le radici di tale processo nel pensiero illuministico, Borghesi sostiene che la secolarizzazione (e i suoi mali, a detta dell’autore) sarebbe un portato dell’età romantica e, più in particolare, dell’hegelismo.
Nell’illuminismo francese, nota infatti l’autore, la secolarizzazione era ancora intesa come uscita dell’uomo dalla dimensione religiosa, come trasposizione del trascendente nell’immanente, come interpretazione dei concetti religiosi in chiave meramente mondana. Questa forma di secolarizzazione aveva trovato un limite invalicabile nella questione della teodicea — si pensi al Candide di Voltaire e alla sua critica al migliore dei mondi possibili di Leibniz — e aveva finito col risolversi in un manicheismo tradizionale, di tipo dualistico, basato sulla distinzione tra gli opposti: luce e tenebre, bene e male, ragione e superstizione, élite e popolo. La secolarizzazione francese aveva così portato all’ateismo e alla laicità, dunque a un rifiuto netto della religione tradizionale.
Hegel, invece, avrebbe delineato una concezione molto diversa della secolarizzazione, non volendo opporsi direttamente al cristianesimo, ma pretendendo di usarlo per i propri fini. Nella visione hegeliana, la secolarizzazione punta infatti a inserire la dogmatica cristiana, e in particolare la teologia della croce luterana, in un quadro gnostico e panteistico. L’uomo, novello Prometeo, viene considerato capace di divenire Dio e la storia individuale viene piegata alle necessità della storia dello spirito universale. Ne risulta un manicheismo per così dire dialettico, in cui, a differenza dei philosophes, non ci si accontenta di distinguere tra gli opposti (bene e male, vita e morte), ma si vuole guardarli come poli della totalità, dell’intero, come momenti di un processo più ampio, quello della fenomenologia dello spirito, del cammino del pensiero verso l’auto coscienza.
I contrari possono ora riconciliarsi in un’originale sintesi, che è resa possibile dall’Aufhebung, ossia da quel movimento peculiare che consiste nel togliere la differenza, conservandola. Solo attraverso la negazione, la caduta dell’uomo, il suo rapporto con il molteplice e l’incompiuto, il finito e l’illusorio, si darà la composizione tra l’io e l’assoluto. Il negativo ne esce pertanto legittimato e a un tempo esaltato come elemento fecondo e generativo: senza il peccato non vi può essere la grazia, sembra dire Hegel, senza la morte non vi può essere la res urrezione, senza la malattia non vi può essere la salute, senza le tenebre non vi può essere la luce, senza il diabolico non vi può essere il divino. Senza la guerra, inoltre, non vi può essere la pace e non vi può essere progresso. I conflitti sono infatti utili alla preservazione e al mantenimento di quell’intero politico che è lo Stato. E utili in sommo grado sono i conflitti moderni, che si combattono con le armi da fuoco: queste ultime consentono di uccidere il nemico in modo impersonale e indifferente, senza guardarlo direttamente negli occhi. Il passo in direzione dell’idea che la lotta è il motore della storia è davvero breve.
Con queste argomentazioni, sostiene Borghesi, la filosofia hegeliana avrebbe fornito — per la prima volta nella storia della riflessione filosofica occidentale — una legittimazione al male, avrebbe offerto una sua giustificazione su basi razionali, e di conseguenza avrebbe dischiuso le porte a un’autoassoluzione della coscienza del singolo. Si può fare il male perché, in fondo, fare il male è un modo per fare il bene. L’umanità nuova a cui aspira l’hegelismo deve, da una parte, rifiutare il nesso kantiano tra moralità e felicità, dall’altra, saper usare il male per trasformare il mondo a proprio vantaggio.
Quello di Hegel sarebbe, però, un errore di prospettiva, scrive Borghesi: «Il male non “serve” al bene ma, inesorabilmente, “si serve” del bene, lo attrae a sé, lo snatura sino a renderlo irriconoscibile. La dialettica del negativo, contrariamente a quello che pensava Hegel, non perviene mai al positivo». E ancora: nell’ottica hegeliana, Tersite, l’antieroe dell’Odissea che osa sfidare Agamennone, Achille e Odisseo stesso, tentando di mostrare all’esercito acheo l’insensatezza della guerra contro i troiani, viene ripudiato a favore di Prometeo. Il rancore e il risentimento dei deboli devono lasciare il posto alla hybris del “superuomo”, capace di sfidare gli dèi. Con il filosofo di Stoccarda, si aprirebbe dunque una fortunata e influente linea di pensiero destinata però a produrre conseguenze devastanti: passando per Nietzsche e la sua contrapposizione tra la «morale dei signori» e la «morale del gregge» si giungerebbe all’affermazione del nazionalsocialismo — certo in modo non lineare e non banalmente consequenziale. La dialettica hegeliana sarebbe, in breve, l’anticamera dei totalitarismi novecenteschi, con la loro venerazione per la totalità, a scapito dell’individuo, e la loro distinzione tra puri e impuri, adatti e inadatti.
Una tesi che, mutatis mutandis, ricorda quella sostenuta da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo (1947), laddove il bersaglio polemico dei due francofortesi era l’illuminismo latamente inteso come esaltazione del pensiero calcolante e strumentale, come volontà dell’uomo di dominare il mondo attraverso la ragione. Che lo si chiami “illuminismo”, romanticismo o hegelismo, non si tratta che delle scorie della mitologia prometeica, pronta a sacrificare le esistenze umane in nome di princìpi assoluti e universali. Con ogni mezzo possibile.