La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza

Ho letto con profonda impressione l’articolo che Anna Foa ha pubblicato su «La Stampa» il 13 settembre. Storica ebrea e autrice de Il suicidio di Israele, Foa osa guardare alla tragedia di Gaza con la legge della pietà e della memoria, proponendo di restituire nomi e volti ai palestinesi in fuga. Un testo breve e bellissimo, che merita di essere condiviso e meditato, come ho voluto fare per IlSussidiario.net. Nell’immagine una xilografia tratta da una Haggadah di Pasqua stampata a Venezia nel 1609. L’incisione mostra la città santa di Gerusalemme cinta da mura, con le porte, le torri e il Tempio al centro, secondo l’immaginario dell’epoca.

IlSussidiario.net, domenica 14 settembre, PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza (Massimo Borghesi)

Di fronte al genocidio perpetrato dal governo di Israele, Anna Foa su “La Stampa” propone di dare, ove possibile, un nome ai palestinesi

Anna Foa è una storica di professione ed è ebrea. Il suo ultimo libro, vincitore del premio Strega, ha un titolo significativo: Il suicidio di Israele (Laterza, 2024). Sabato 13 settembre ha pubblicato su La Stampa un articolo, Dall’Egitto a Gaza, il dolore dell’esodo, che non può passare sotto silenzio. È un testo breve di grande bellezza. In esso scrive:

Nelle raffigurazioni delle Haggadoth medievali, il libro letto a Pasqua dagli ebrei, l’esodo dall’Egitto è rappresentato in vesti medioevali: gli ebrei sono raffigurati come nelle espulsioni che nel Tre-Quattrocento ne resero difficile la vita in Europa. Se ne andavano con i loro averi trasportati sui carri, uscendo dalle porte delle città, dopo che i decreti cittadini li avevano scacciati. Con le loro vesti medioevali, i loro cappelli segno di infamia, le loro donne e i loro bambini. Se oggi dovessimo fare altrettanto, la nostra immagine dell’Esodo sarebbe quella che vediamo nei video trasmessi dalla televisione, della lunga fila di macchine, furgoni, carretti che portano i palestinesi di Gaza City verso Sud, sgombrando la città per distruggerla dalle fondamenta. I carri medioevali hanno ora il motore, ma la lunga fila è la stessa, il dolore dell’esilio lo stesso”.

Ciò che è diverso, osserva la storica, è il rischio della morte. Gli ebrei esiliati potevano, nel Medio Evo, trovare rifugio altrove, rifarsi una vita. A Gaza questo è impossibile, i profughi, stretti in un lembo di terra divenuto una prigione, non sanno dove andare. Ogni posto, i campi profughi, le case, le tende in riva al mare, sono potenziali luoghi di morte. Questa consapevolezza muove Anna Foa a porsi una domanda che oggi nessuno pone, una domanda che va al cuore della tragedia, oltre la guerra che divide due popoli.

Chi sono coloro che si muovono in queste lunghe interminabili file? Di alcuni di loro abbiamo notizie, perché ne conosciamo il nome, hanno insegnato nelle università, lavorato negli ospedali, dato come giornalisti notizie che solo i giornalisti di Gaza erano autorizzati a trasmettere. Di altri, vecchi, donne, bambini, nulla sappiamo se non il dolore che leggiamo sui loro volti senza sorriso. Ma l’ordine di evacuazione varato dal governo di Israele azzera le vite di tutti. Non ci sono più privilegiati, se non coloro che hanno abbastanza denaro per farsi aiutare nella fuga, ma per andare dove? Amici, amici di amici, scrivono chiedendo di essere aiutati a uscire da quella prigione a cielo aperto. Ma come?

 

Le difficoltà burocratiche, quelle politiche e militari dell’esercito e del governo israeliano, quelle stesse della inenarrabile confusione di questo esodo lo rendono difficilissimo, forse impossibile. L’ossessione israeliana per i muri, i checkpoint, le proibizioni di muoversi trova qui la sua mortale apoteosi. Quanti di questi individui in fila per salvarsi sopravviveranno? E potremo mai ricordare i nomi di chi non ci riuscirà, leggerli un giorno come il cardinal Zuppi ha letto giorni fa quelli dei bambini morti in questi mesi a Gaza?

La Foa applica qui, ai palestinesi, la legge della pietà, quella della memoria, la stessa che gli ebrei sopravvissuti alla Shoah hanno adottato verso coloro che sono diventati cenere nei forni crematori. Si tratta, da parte di un’autrice ebrea, di una posizione coraggiosa, rischiosa, che comprende come anche il nemico, il popolo che ti odia, possa essere una vittima. Vittima da parte di uno Stato fondato dalle vittime dell’Olocausto che, in esso, ha trovato la sua legittimità che oggi sta perdendo per una reazione spropositata, crudele, disumana al vile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Un attacco che ha allargato a dismisura il fossato tra ebrei e palestinesi offrendo a Netanyahu l’occasione per portare a termine il “lavoro sporco”, secondo la definizione del primo ministro tedesco Friedrich Merz. Nel lavoro sporco non può esservi pietà per l’avversario, anche se esso nulla ha a che fare con i crimini di Hamas.

Impedire la pietà, da parte di Israele, da parte del mondo, implica il venir meno dell’informazione, togliere voce e volto alle vittime. Per questo più di 200 giornalisti sono stati uccisi a Gaza. Nel circuito mediatico mondiale, attivo 24 ore su 24, Gaza è un buco nero. Lo è la Cisgiordania nella quale la quotidiana violenza dei coloni israeliani verso i palestinesi è oggetto di narrazione ma non di immagini. Lo Stato non lo consente. È in questo buco nero che si colloca la proposta di Anna Foa.

E allora, cominciamo a ricostruire, attraverso gli scarsi frammenti che ne abbiamo, i nomi, i volti, le età, le professioni di alcuni di loro. È possibile. Vediamo di non cogliere in quelle lunghe file di esiliati solo numeri, ma vite. Vite troncate, forse distrutte, ma vite da ricordare, da ricostruire nella nostra mente. Lo facciamo, lo abbiamo fatto, per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi. Allora, lo abbiamo fatto dopo, dopo che erano stati distrutti. E se ora provassimo a farlo quando coloro che sono destinati alla morte sono ancora in vita, quando temono per le vite dei loro figli? Una memoria immediata, di ciò che sta accadendo ora. Forse getterebbe un po’ di luce su quel milione di esseri umani in movimento, forse, chissà, ne salverebbe alcuni. È difficile ma possiamo almeno provarci. Di fronte alla negazione che questa tragica storia comporta della loro umanità, è una delle vie per ricordare che sono esseri umani uguali a noi”.

“Lo abbiamo fatto per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi”. Il grande cuore di Anna Foa non si ferma all’ideologia, incancrenita dall’odio, non indugia al mito dell’eccezionalità di Israele.

Al contrario vuole estendere anche agli altri, ai palestinesi, la dimensione vittimaria. Fare quello che gli ebrei hanno fatto per la Shoah significa oggi dare un nome ai profughi di Gaza. Salvarli significa farli uscire dall’anonimato, quello che facilita le uccisioni indiscriminate di uomini, donne, bambini.

Un palazzo bombardato, una tendopoli, un ospedale, una scuola: così, a caso, la morte arriva dal cielo. Cade su uomini senza volto che nemmeno le immagini strazianti che filtrano dalla Striscia riescono a restituire. La pietà non è destata dalle masse di poveracci che vagano, senza sosta e senza meta, non dalle donne straziate che urlano di dolore. I volti impietriti dei prigionieri ad Auschwitz, con le teste rasate e gli indumenti logori, non destavano alcuna compassione negli aguzzini del campo.

Pietà e compassione sorgono non di fronte alla folla dei miserabili, che scorre ogni giorno nei nostri telegiornali, ma di fronte ad un volto nella folla. In articolo di alcuni anni fa, dal titolo Spielberg, Manzoni e i colori della pietàAdriano Sofri scriveva:

Le fosse comuni, le cataste degli sterminati, riempiono di orrore e fanno distogliere lo sguardo, mentre la pietà è singolare. L’occhio della misericordia ha bisogno di scegliere, o essere scelto, da una figura e su quella fissare angoscia, simpatia, smania di soccorso. Questo fanno le immagini, e prima di loro i racconti. Sollevano dal bassorilievo di fondo dove giacciono i caduti o languono i malati o si trascinano i deportati, una figura a tutto tondo, un bambino di Varsavia con le mani alzate e la stella sul cappotto, un miliziano che stramazza, una bambinetta vietnamita che corre singhiozzando, una madre algerina impietrita dal dolore, una piccola Leyla sarajevese con l’orbita vuotata da un cecchino. Soprattutto lo spettatore del genocidio ha bisogno di aggrapparsi ad un corpo, ad un viso, un nome, per non essere schiacciato e soffocato dal mucchio smisurato di morti, da quel forsennato delirio di quantità che ne ispirò e ubriacò gli autori. I milioni di morti sono troppi per non togliere il fiato e le forze. Fermando lo sguardo su un punto noi compiamo una specie di adozione, che ci lascia di nuovo respirare e piangere, e ridiventare capaci di figurarci anche il grande numero”.

L’universale, il dramma collettivo, può essere abbracciato e condiviso solo partendo dal particolare, dallo “sguardo su un punto”.

Un esempio toccante di ciò può essere desunto dalla bambina dal cappotto rosso del film Schindler’s List di Steven Spielberg. Il film, con al centro la vicenda tragica degli ebrei polacchi, le retate nel ghetto di Varsavia, la deportazione e lo sterminio ad Auschwitz-Birkenau, è girato interamente in bianco e nero. V’è in ciò una precisa scelta estetico-morale: il film è un gelido documentario da cui sono tolti i colori della vita.

Unica eccezione è la bambina dal cappotto rosso fiammeggiante, vista prima da viva e, da ultimo, gettata di traverso in una carretta di ammazzati. Colorandola di un colore acceso, Spielberg la eleggeva a rappresentante dei milioni di morti, anonimi e senza volto, di grigia cenere.

Nel suo articolo Sofri ricorda, in proposito, un precedente letterario di grande suggestione: la morte di Cecilia nel XXXIV capitolo de I promessi sposi. La scena si svolge nel quadro, tristissimo, della Milano devastata dalla peste. Manzoni la descrive con gli occhi di Renzo che cercava “di non guardare quegli ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli”.

Una fuga, quella di Renzo, dominata dall’orrore, che, d’un tratto, si arresta e cede il posto alla pietà: “il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo”. Dall’uscio di una casa usciva “una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; […] una bellezza velata e offuscata, ma non guasta […]. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta, ma tutta ben accomodata, cò capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio”.

La scena obbliga al rispetto anche il “turpe monatto” che fa spazio, nel carro, per la piccola morta. “Una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte […]. La madre la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco.

L’episodio è, dal Manzoni, desunto da una scarna informazione contenuta nel De pestilentia di Federigo Borromeo. Rispetto alla fonte, scrive Sofri, ”l’intento di individuazione ha spinto Manzoni a dare un nome alla bambina – Cecilia – e a colorarla di quel bianco. […] quel bianco tre volte ripetuto a risaltare nel paesaggio sterminato di morte, una intenzione particolare e propriamente pittoresca”.

Come la bambina dal cappotto rosso di Schindler’s List anche qui il colore capta lo sguardo, fissa in un particolare il destino comune, rende possibile la partecipazione all’immane tragedia. Commozione e pietà sorgono da un volto nella folla.

Questo è quanto Anna Foa ha pienamente compreso. Siamo tutti spettatori della tragedia di Gaza, della follia criminale del governo di Netanyahu che sta infangando il nome di Israele nel mondo. Eppure quella tragedia arriva a noi, a noi che la contempliamo in diretta, anestetizzata. Ci mancano i nomi, i volti, le storie, per sentirla nostra. Come nostra ci è apparsa, da subito, la vicenda di padre Gabriel Romanelli e della comunità della Sacra Famiglia a Gaza quando la chiesa è stata bombardata.

Il colpo sparato dal tank ha sollevato, per reazione, un moto di sdegno e di solidarietà mondiale al punto che Netanyahu ha dovuto scusarsi con il Papa. Padre Romanelli è il parroco della piccola comunità palestinese di Gaza. A lui papa Francesco telefonava ogni giorno prima della sua morte.

Dovremmo e vorremmo conoscere altri volti oltre a quelli del sacerdote, volti non di Hamas che tiene prigioniero il suo popolo ed è causa della sua tragedia, ma del popolo palestinese. Così il moto di compassione potrebbe divenire universale e la condanna verso l’oppressore divenire oceanica. Una condanna non degli ebrei ma del loro governo, del presidente che ha rinnegato la memoria della Shoah.

 

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