Con piacere riporto il testo dell’intervento di monsignor Sergio Ubbiali all’incontro del Centro Culturale San Carlo Milano del 12 febbraio scorso attorno al volume È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio, curato dal sottoscritto e pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. L’evento ha visto la presenza anche di Giuseppe Frangi e Giorgio Vittadini, con il coordinamento di Alessandro Banfi.
Monsignor Sergio Ubbiali è Professore Ordinario Emerito di Teologia Sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (FTIS) di Milano. Ha inoltre ricoperto l’incarico di Professore invitato all’Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina a Padova e di Coordinatore scientifico del DIREL presso l’Università di Torino. La sua attività accademica include collaborazioni con istituzioni universitarie a Padova, Torino e Monaco di Baviera. La sua ricerca teologica si è caratterizzata per l’interesse di tipo fondamentale, con particolare attenzione all’antropologia, alla sacramentaria e all’escatologia, adottando un approccio influenzato dalla fenomenologia. È autore di numerose pubblicazioni teologiche, tra cui opere come Il segno sacro. Teologia e sacramentaria nella dogmatica del secolo XVIII, Il venire di Dio nella storia umana. Nuove riflessioni sull’Eucarestia, Le opere di misericordia. Il realismo della fede e Jacob Taubes. La fenomenologia dialettica. In occasione del suo 70° compleanno, nel 2021, è stato pubblicato in suo onore il volume intitolato “Il segreto della libertà. Studi in onore di Sergio Ubbiali nel suo LXX compleanno”.
Giovedì 13 Febbraio 2025 Auditorium CMC
Un tesoro di parole incarnate Don Giacomo Tantardini
Dialogo sul libro «È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio». Omelie a San Lorenzo fuori le mura (2007-2012).
Intervento di mons. Sergio Ubbiali, Docente Teologia Sistematica, Facoltà Teologica Italia Settentrionale
Grazie per questa occasione che davvero mi consente di dimostrare tutta la gratitudine che porto con me, nella mia la vita, nel lavoro che faccio, ad una personalità, ad una squisita personalità come quella che don Giacomo ci ha offerto.
Volevo completare l’indicazione per quanto riguarda il volume, ringraziamo anche la comunità di Lissone che si è in qualche modo mossa perché venisse pubblicato questo testo e ha fatto molto perché venisse raccolto il materiale e venisse anche ordinato, venisse specificato nel migliore modo possibile, grazie davvero a tutti quelli che hanno collaborato hanno dato tempo e intelligenza a questa operazione.
Diciamo che il mio motivo è di gratitudine appunto perché io ho conosciuto don Giacomo all’età della maturità liceale, perché allora nelle classi del liceo era sempre presente uno studente di teologia, che aveva come compito di stare accanto a quelli più piccoli, di introdurli allo stile clericale Ambrosiano al modo di vivere la fede, la pastorale, e tutto ciò che questo comporta con la modalità la particolarità della diocesi milanese.
Ecco nella mia classe di allora, appunto all’ultimo anno del liceo, arrivò questo personaggio, questo prete ancora in fieri ma già in qualche modo presente pronto al ministero, che fu per noi una sorpresa immensa; in mezzo a tutti i tutor che le altre classi avevano la sua era una presenza sicuramente di eccellenza, era veramente al di fuori dello schema al di fuori delle probabilità di intesa che gli altri offrivano.
E fu per noi una scoperta perché ci introdusse nel mondo di quel momento. Siamo nel ‘68 quando io faccio la maturità, quindi un mondo un po’ mosso, ampiamente mosso, e lui fu capace proprio di riportarci con grande acutezza, ma soprattutto con grande fermezza ad alcune categorie in grado di affrontare, di spiegare quel momento della storia e il primo grande richiamo che ci fece e che ritorna anche poi spesso nella sua predicazione fu l’attenzione al momento storico, concreto, non a una fantasia sul tempo, una fantasia sulle modalità con cui gli uomini affrontano i tempi della vita.
Il richiamo fu alla capacità di stare di fronte a come la realtà si propone con la grande questione di quali categorie mettere in atto per non fallire il momento del presente.
E questo fu una grande scoperta per noi perché la formazione seminaristica era in qualche modo un po’ sopra il presente, la figura di un sacerdozio un po’ eterno capace di stare al di sopra dei momenti.
Il suo richiamo invece fu un richiamo alla concretezza, alla realtà, alla fatticità, e a questo impegno, questa fatica che continuamente l’uomo si trova ad affrontare è: ma come si spiega tutto questo, ma cosa si può dire di tutto questo, che cosa si può ordinare per non fallire per non sbagliare il momento del presente.
Ecco questo fu il grande elemento che ci suggerì e che di fatto conquistò la nostra volontà di lavoro di impegno collettivo di tutta la classe, riuscire a non uscire dalla storia, non stare in una sorta di proiezione di ciò che la storia dovrebbe essere, potrebbe essere, riuscirebbe ad essere, ma così com’è, come si presenta, e in quale misura in quale modo ci si possa attrezzare perché l’intelligenza, l’intelligere, l’entrare dentro la storia, diventasse una parte fruttuosa del proprio vivere il tempo
Devo dire che certo don Giacomo in quel periodo si alimentava ad una grande svolta che era stata realizzata a Venegono sulla fine degli anni ‘50. Si parla ancora oggi della scuola di Venegono, appunto perché in quel periodo un insieme di teologi determinò una obiettiva svolta nel compito e nel lavoro della teologia. Fino a quel momento, fino ai primi anni ‘50, la teologia parlava il linguaggio del dogma, il linguaggio di quelle formule che tassativamente, obbligatoriamente in maniera continuativa devono essere ritenute e dette dal punto di vista di chi fa teologia.
Ora in quegli anni si incominciò un lavoro su questo tipo di linguaggio e grazie a due grandi teologi, primo Monsignor Carlo Figini che aveva studiato a Roma con un grande Tomista, un Cardinale che diede indietro la berretta cardinalizia, il Cardinale Billot, che fu non so quanto libero nel ridare la propria berretta cardinalizia ma certo a un certo punto rinuncia alla funzione di Cardinale per alcuni contrasti anche di carattere sociale politico.
E Carlo Figini tornando a Venegono dagli studi romani, importa una idea che è sua però, che aveva ritrovato in queste espressioni di Billot, cioè che il pensiero, anche quello dogmatico, va collocato nel tempo in cui sorge.
Certo il dogma ha un valore che trapassa i tempi e non di meno per poterlo comprendere occorre entrare nel tempo in cui viene enunciato, viene prodotto in termini normativi.
E questo fu in qualche modo una scoperta per quanto riguarda la teologia perché vuol dire che la storia, lo studio della storia, tutti gli strumenti della storiografia fanno parte del lavoro della teologia.
E il secondo autore che nasce fondamentalmente da Carlo Figini, Carlo Colombo, portò in qualche modo più avanti il pensiero dicendo che non soltanto occorre collocare storicamente il linguaggio e la formula dogmatica, ma anche ciò di cui si occupa la teologia ha una propria storicità, ha in qualche modo una variazione che deve essere spiegata, deve essere non soltanto assunta ma deve essere spiegata.
Ecco in questo clima un gruppo di giovani teologi, Giussani é fra questi, ma c’era anche Giacomo Biffi altro autore di questo momento della storia di Venegono incominciano un tipo di collaborazione a questo progetto molto personale ma anche molto inventivo, per cui, il caso di Giussani è emblematico da questa punto di vista, il linguaggio incomincia a essere per la teologia non primariamente quello dogmatico ma quello esperienziale, cioè Storia da questo punto di vista, e che cosa accade ai credenti, che cosa avviene alla chiesa come compagine dei credenti, e di questo si occupa, di questo si interessa lo studio la teologia.
E questo ha cambiato radicalmente l’ordine dei fattori di cui la teologia si fa carico ma soprattutto cambia tutto il complesso degli elementi a cui la teologia si rivolge, compreso anche il lavoro della Chiesa, il lavoro pastorale il lavoro che appunto ciò di cui la comunità cristiana si fa attivamente partecipe e quindi testimone.
E non a caso quando Montini arriva a Milano, scopre questo linguaggio in qualche modo nuovo e l’espressione “senso religioso” di Giussani diventa anche il proprio.
La storia poi si complicherà un po’ di più appunto, però questa idea questo suggerimento, questo auspicio della scuola di Venegono diventa anche un auspicio che si estende al di la della scuola vera e propria, dell’ordinamento, della sistematica di teologia.
Ecco questo che diventa il paradigma della scuola di Venegono sarà poi portato a Milano quando nel ‘68 ‘69 il Cardinal Giovanni Colombo chiederà di spostare la facoltà di teologia che aveva come sede il seminario di Venegono di portarla a Milano, e a Milano la facoltà che è ancora adesso é lì di fianco la chiesa di San Simpliciano, riattiva fondamentalmente questo tipo lavoro, e si può dire che andando più a fondo poi delle prime avvisaglie di quel progetto che era stato enunciato e coltivato a Venegono se ne fa carico.
Tant’è vero che la categoria di esperienza diventa una delle categorie su cui in prima battuta la scuola che è anche la scuola, appunto la scuola dove io insegno, ha ripreso in maniera veritativa, cioè non posso parlare di verità se non parlando anche dell’esperienza entro la quale la verità si presenta e si decide come tale.
Ecco, in questo clima fondamentalmente si forma don Giacomo Tantardini, l’alunno di teologia Giacomo Tantardini, appunto perché i maestri che negli anni ‘50 fanno, operano questa piccola rivoluzione di carattere concettuale sono anche i suoi maestri.
Ecco perché quando arrivò da noi la sottolineatura della concretezza della realtà della fatticità diventa per lui una pregiudiziale perché appunto non si fa pensiero in maniera astratto, in maniera irrealistico, in maniera ipotetico, ma va fatto ciò che la realtà impone all’uomo di esprimere e di mettere in atto.
E il suo compito fu di aprire anche la nostra mentalità il nostro modo di stare al mondo dentro questo contesto.
E questo fatto è certamente uno degli elementi di architettura sostanziale radicale della predicazione che egli adotta e che qui è testimoniata, perché sempre in questo stile molto conciso, molto breve, molto lapidario per alcuni versi, l’oggetto è sempre qualcosa di concreto, qualcosa che ha che fare con la vita, ha a che fare col vivente, con colui che vive e che ha come questione proprio il perché di una vita, perché appunto stare con la verità significa viverci. Certo l’autore che lui persegue in maniera più esplicita è Agostino, ma questa è la cosa interessante: per lui Agostino in realtà è Milano, Agostino è il convertito da parte della chiesa di Milano, lui che era venuto da Roma per distruggere la comunità cattolica, Ambrogio è l’autore che ne ha attuato tutti i passaggi finché a un certo punto Agostino domanda il Battesimo.
Sappiamo che è Simpliciano il teologo che lo forma, perché Ambrogio non aveva mai tempo per Agostino che si lamenta di questo, allora c’era questo grande dissidio tra la comunità ariana espressione della teologia di Ario e dall’altra invece la comunità ortodossa cioè Cattolica e che si combattevano finché Ambrogio diventa vescovo e cerca di suturare questo dissidio facendo in modo che la versione cattolica per lui molto orientata sulla chiesa Greco Orientale diventasse la madre della fede qui a Milano.
Agostino si lascia conquistare da questa padronanza che ha Ambrogio della fede cattolica e si converte al cristianesimo.
E don Giacomo entra spesso dentro questa grande dinamica che Agostino appunto mostra di avere; Agostino vive la propria conversione e ha cercato di venire a capo di questa conversione e don Giacomo sottolinea due elementi fondamentali della spiritualità che egli ha mostrato e mostra continuamente.
Da una parte l’idea che in Agostino ritrova una dimensione universale che fa parte della figura cattolica come tale, la famosa frase di Agostino “io sono nato per la carità”, universalità vuol dire per don Giacomo la prossimità ad ogni uomo, universale appunto perché questa è una fede che sa parlare a ciascuno, che non lascia i problemi, le questioni, le difficoltà di chiunque al di fuori dell’attenzione che la fede può mettere in moto.
E secondo appunto la conversione, che però tu capisci ciò di cui Agostino parla soltanto se ti converti, soltanto se non tu proietti ciò che vorresti, ciò che ti aspetteresti, ciò che tu ti auspichi, ma ritrovi in Lui quel contenuto che ti suggerisce come puoi viverne, appunto la forma non soltanto della parola ma anche della vita è qualcosa che il contenuto costruisce, non sei tu che lo metti, lo sovrapponi, ma se stai con Cristo che è il contenuto della fede, sorge anche la forma grazie alla quale la potenza di Cristo diventa ciò che illumina la tua vita e illumina anche il modo di interpretare la vita.
E concluderei dicendo che forse una categoria che meriterebbe una grande intellezione anche speculativa è il concetto di testimone che continuamente don Giacomo mette in moto. Testimone che non é naturalmente in chiave né moralistica né intellettualistica, ma proprio questo fatto che se ti converti nascono le parole nascono le opere perché il momento non finisca” ma mostri tutta quella gravità, quella profondità, quella intensità che esso mantiene, e questo è anche il concetto di avvenimento, che è un concetto fondamentale ma che si collega a questo di testimone.
Testimone non vuol dire io so già che cosa, ma c’è come un essere creato ogni volta, perché io possa dire ciò che Dio vuol dire al mondo ed è questo ciò che in fondo Giacomo ha sempre voluto mettere in luce, che Dio ha ancora in serbo qualcosa che non ha detto alla storia. Questo è l’evento, questo è l’avvenimento.
C’è ancora qualcosa che Dio vuole dire ma lo dice appunto tramite il testimone colui che tiene aperta continuamente questa possibilità, che dice Dio ha già parlato ma ha ancora qualcosa da dirci.
Ecco la conversione, il testimone, l’avvenimento, il concreto della vita per don Giacomo sta tutto in questo.
Che il testimone fosse colui che vive e fa esperienza di una certa verità o certi giudizi si poteva facilmente acquisire come una importante categoria per orientarsi nella vita, ma che fosse colui tramite il quale Dio tiene “continuamente aperta la possibilità” di parlare alla storia e all’uomo perché “ha ancora qualcosa in serbo che nn ha detto alla storia” è ciò che fa respirare a pieni polmoni nel cammino