Giaime Rodano lettore di Péguy

L’Osservatore Romano di martedì 13 febbraio ha pubblicato stralci di due contributi contenuti nel numero della rivista trimestrale «Studium» dedicato a Charles Péguy a 150 anni dalla nascita (Roma, luglio-settembre 2023): parte del mio articolo «Péguy, il laico, il cristiano», e l’intervista a Giaime Rodano, a cura di Pina Baglioni, pubblicata la prima volta su «Il Sabato» il 23 febbraio 1991.

Allego il testo dell’intervista a Giaime Rodano, segnalando peraltro che la seconda parte del dossier è dedicata a: «Giaime Rodano lettore di Péguy». Il numero della rivista può essere acquistato telefonando al numero 06/6865846.

L’Osservatore Romano, 13 febbraio 2024, pp.6-7, Dove il cristiano incontra il laico, intervista a Giaime Rodano di Pina Baglioni

Non si può negare che un certo silenzio editoriale in Italia ci sia stato. Tanto da oscurare la fama di Péguy presso un pubblico più ampio. «La sfortuna di Péguy in Italia è dovuta soprattutto al fatto che in Francia il maresciallo Pétain lo utilizzò come uno degli ispiratori della “rivoluzione nazionale” negli anni Quaranta. E certo questo ebbe il suo peso in Italia appena uscita dal fascismo. Senza contare che anche Mussolini aveva inserito Péguy, come già aveva fatto con George Sorel, nel “grande fìume del fascismo”. E in questo fu influenzato da Giovanni Gentile, che lo aveva probabilmente conosciuto attraverso i vociani. Insomma pesò sul grande scrittore la nomea di reazionario».

Tra i vari estimatori di Charles Péguy ci fu Antonio Gramsci; che di lui disse «questo scrittore che tanto amiamo». Come se lo spiega?

Per il suo socialismo anomalo, in perenne polemica con Georges Sorel o Jean Jaurès. Ammirava la sua «coerenza»: il fatto che non rinnegò mai nulla del suo passato socialista. Riconosceva a Péguy il merito di essere rimasto estraneo sia agli ambienti socialdemocratici della Seconda Internazionale che a quelli delle frange estremistiche. Non era insomma né un socialdemocratico né un anarcosindacalista. Sentì come profetica nello scrittore francese l’esigenza di stabilire un collegamento tra socialismo e nazione, tra proletariato e popolo. Per non consegnarsi al valore borghese del denaro.

In che conto fu tenuto da Gramsci il cattolicesimo di Péguy?

Non affrontò mai questo aspetto. Attenzione però. Quando si parla della fede cattolica di Péguy, si insiste nell’usare il termine «conversione». Péguy non si convertì, ma ritornò al cattolicesimo della sua infanzia. E non utilizzò mai questo suo ritorno in modo «propagandistico». Per entrare, cioè, nel salotto buono degli ambienti cattolici e trarne quindi vantaggi in termini di popolarità. Ad esempio non sopportava Paul Claudel: a suo parere non faceva altro che sbandierare ai quattro venti la sua conversione al cattolicesimo. E questa sua libertà lo portò a un passo dalla scomunica, visto che non volle mai fare un matrimonio conformistico. Non gli interessavano un cattolicesimo e una Chiesa ridotti ad anagrafe. Le posizioni autenticamente cristiane per lui erano due: quella del santo e quella del peccatore. Le uniche due in cui la Grazia poteva agire più liberamente, senza alcun ostacolo. Una Grazia a cui si poteva rispondere in libertà «sì» o «no». In Péguy, infatti, penso soprattutto ai suoi grandi dialoghi con la storia pubblicati postumi, non c’era separazione tra natura e grazia. Distinzione sì. Se è vero, infatti, che queste sue dimensioni sono tra loro intrinsecamente intrecciate, se è inimmaginabile che i due piani non interferiscano tra loro, è pure vero che essi vanno principalmente distinti perché il cielo non soffochi la terra e la terra non cancelli il cielo.

Perché definisce Péguy un «postcomunista»?

Innanzitutto ci tengo a precisare che quell’espressione l’ho usata esattamente quindici anni fa. Insieme a mio padre riflettevamo allora anche intorno alle idee-guida di Péguy. Tra esse fondamentale è l’esaltazione del lavoro come momento primario della dignità e della grandezza dell’uomo quando si incarna nell’«opera ben fatta». Centrale in tutto questo è la critica implacabile al «mondo moderno», anche se poi il «classico» Péguy vedeva bene come lo stesso mondo antico fosse in quanto tale non più difendibile. Guai però a dare a Péguy la patente di pensatore reazionario o meramente preborghese. Significherebbe tradirlo.

Né reazionario, né preborghese quindi. Ma «postcomunista».

Certamente non nelle vesti di un pensatore sistematico. Ma è innegabile che Péguy ha sollevato ottant’anni fa problematiche che saranno attuali domani. Dà delle indicazioni preziose, ha intuizioni profetiche. Apre sentieri mai battuti. E cioè che in una società ormai dominata dal denaro esistono forme di vita che a quella logica non si sono mai piegate e che sono capaci di rivolte e affermazioni. Segni di contraddizione potenzialmente «rivoluzionari».

Ma a realizzare quelle «opere ben fatte» era il popolo francese del secolo scorso. Senza quel popolo, dove «Un libero pensatore di allora era più cristiano di un devoto di oggi», chi potrebbero essere oggi i soggetti in grado di vivere cosi’?

Péguy dice a proposito dell’imborghesimento del popolo francese: «Non mi si faccia dire ciò che non dico: io dico: abbiamo conosciuto un popolo che non rivedremo mai più. Io non dico: non vedremo mai più un popolo… Ne vedremo altri».

E quali esattamente? Ci può fare qualche esempio concreto?

La grande scommessa di Péguy si gioca tutta nella capacità di recupero, in termini naturalmente «trascesi» e per così dire «aggiornati», di alcuni decisivi valori presenti in una società preborghese. L’esaltazione del lavoro e il recupero del valore d’uso contro quello di scambio è rivolto da lui ad un proletariato capace di ricongiungersi al popolo: quel coagulo indifferenziato e premoderno di soggetti che hanno continuato a lavorare e a produrre «opere ben fatte», o perlomeno a custodirne l’ideale. A dispetto dell’egemonia borghese. Certe esigenze, dice Péguy, non si sono dissolte nel nulla, o soffocate definitivamente dal denaro, dall’imborghesimento generale.

Quindi un Péguy in preda alla più incredibile delle utopie, o delle pie illusioni?

Qui ci potrebbe essere un effetto a «forbice». Il rischio di far coincidere la possibilità di lavorare con dignità e per il bene di tutti con le forme di lavoro precapitalistico, cioè l’artigianato. E questo emerge in molti testi. Come nella Città Armoniosa. Come, e forse più ancora, nell’Argent. Se ci si fermasse qui certamente Péguy si troverebbe completamente spiazzato da Marx. Il valore di scambio, in termini di produttività è evidentemente superiore al valore d’uso. C’è però un’intuizione profonda, straordinaria per un uomo che vive nel primo decennio del Novecento. L’ipotesi di una società che organizza la propria produzione non in funzione della pura accumulazione, ma in prospettiva di valore d’uso collettivo.

Ma non si rischia di «estrarre» delle intuizioni che in Péguy hanno ragion d’essere solo in un legame «carnale» con il cristianesimo e farne dei valori astratti?

Péguy non si rivolgeva solo alla «parrocchia» cristiana. Anzi faceva all’intellighenzia cattolica le stesse feroci critiche che rivolgeva a quella socialista. Fu un acutissimo osservatore del dissolvimento del «tessuto» cristiano della società. Ma era convinto che certe aspirazioni, certi ideali non sarebbero venuti meno nonostante l’eclissi del cristianesimo. Péguy inizia i suoi Cahiers de la Quinzaine il 5 gennaio del 1900. Confida al suo amico Joseph Lotte di essere tornato al cattolicesimo il 10 settembre del 1908. Ma sostanzialmente le sue battaglie non cambiano, anche se cambiano i punti di riferimento storico. Certo l’essere poi tornato cristiano non fu senza importanza, sul piano personale e su quello dell’impegno pubblico. Ma non fece mai discendere direttamente la sua riflessione dalle indicazioni del Magistero. Per esempio polemizzò nei confronti della Dottrina sociale della Chiesa. Insomma non si deve fare l’errore di dire che Péguy va bene dal 1908 in poi. Prima no. Péguy dice in sostanza: sappiatemi leggere tutto: sono sempre lo stesso. La madre di Péguy, rimpagliatrice di seggiole e certamente cristianissima, gli trasmise l’amore per il lavoro fatto bene, soprattutto là dove «non si vedeva». Ma l’attenzione ai dettagli, al particolare gli fu insegnata da un artigiano tutt’altro che cristiano. Era un radicale.

Oggi in un momento storico di grande «rimescolamento di carte» e di abbattimento di tutti gli schemi ideologia; l’opera di Péguy potrebbe essere un punto di riferimento culturale anche per il neonato Partito democratico della sinistra?

Le rispondo con Péguy: «Il socialismo o sarà morale, o non sarà». Questa frase non esprime una banalità moralistica. Péguy la scrisse quando ancora si considerava ateo; l’ha ribadita da cristiano (e cattolico). Cosa significa al fondo? Che l’impegno politico, anche il più teso, anche il più coinvolgente non deve pretendere di dare la scalata al cielo dell’assoluto, di esaurire la storia. Anche la politica, che fu la grande passione di Péguy, come ogni altra dimensione umana, va vissuta nel senso del limite. Limite che non significa però costrizione della natura umana, ma al contrario la sua piena e feconda esaltazione. Ora senso del limite del partito, laicità della politica (una politica, cioè, che non fonda assoluti ma serve all’uomo) sono tra i momenti forti, mi pare, del nuovo Partito democratico della sinistra. Mi sembra che i suggerimenti di Péguy abbiano dunque, anche in questi nodi, una validità di lezione.

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