Radici cristiane: non è tempo per nuove catacombe

di Massimo Borghesi. Un’Unione Europea irriconoscibile, rispetto a quella dei padri fondatori (nella foto, De Gasperi, Schuman e Adenauer). Stretta nelle morse della tecnocrazia, del laicismo e del populismo, l’Europa di oggi potrebbe, tuttavia, riscoprire le proprie radici cristiane proprio nell’incontro, in forma positiva e aperta, con identità diverse, a partire da quelle dei sempre più numerosi migranti afro-asiatici. Lo sostiene il professor Massimo Borghesi, ordinario di filosofia morale all’Università di Perugia. Intervistato da Frammenti di pace, Borghesi ha anche espresso il proprio pensiero sull’Europa vista da papa Francesco del cui pontificato il filosofo toscano è uno dei più attenti osservatori.

1957-2017: 60 anni dopo, cosa è rimasto di quell’ideale portato avanti da De Gasperi, Schuman e Adenauer?

Il mondo è molto cambiato e l’Europa della CEE ha assunto una forma e un’estensione impensabili nel 1957. Sessant’anni fa la spinta all’integrazione europea vedeva l’incontro tra Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Era l’incontro tra le nazioni che si erano combattute nella seconda guerra mondiale, una carneficina senza pari. L’Europa è nata come un progetto di pace tra paesi che si sono sfidati nelle due guerre mondiali: in questo risiede il suo valore inestimabile. Non è nata, semplicemente, per un impeto autonomo dei padri fondatori. L’America ha contribuito al suo sorgere per motivi di strategia e di geopolitica. Negli anni ‘50, il mondo era diviso tra Est e Ovest, Unione Sovietica comunista e Occidente. Gli USA hanno certamente favorito il sorgere di un blocco europeo la cui alleanza militare trovava espressione nella NATO. Nondimeno il risultato dell’Unione è stato decisamente positivo. L’unità europea ha garantito ai suoi popoli settant’anni di pace e, nonostante tutto, di prosperità. Il punto critico inizia con il 1989, quando l’impero sovietico comincia a disgregarsi per poi collassare nel 1991. Privata del nemico, l’Europa dell’Ovest ha proceduto a un’annessione indiscriminata dei paesi dell’ex blocco sovietico. Questo ha portato l’UE a 28 membri, un pachiderma burocratico difficile da gestire. Inoltre, è venuta meno la necessità di una legittimazione morale dell’Europa libera rispetto all’avversario comunista. Sposando il modello della globalizzazione, l’UE ha diluito e disperso, con l’eccezione della Germania, il suo ricco patrimonio di welfare, cedendo ai programmi di privatizzazione e di riduzione della spesa sociale. In terzo luogo, la nuova Europa, priva di ragioni ideali divenute desuete, si è affidata a progetti di carattere tecnocratico, meramente economico, per favorire i processi di integrazione. Da qui sorge l’euro, con la sua annessa mitologia per cui l’unificazione economica avrebbe portato, come conseguenza, l’unità politica e ideale. In realtà la moneta comune funziona, in tempi di crisi, come fattore di disaggregazione, non di unità. Questi tre fattori − un’Europa troppo grande, legata al modello della globalizzazione e disattenta alla questione sociale, prigioniera di modelli tecnocratici che non hanno respiro ideale − sono alla radice della crisi presente.

Si può ancora difendere il sogno europeo, anche in un’epoca in cui, oggettivamente, il potere economico e bancario domina?

Lo si può, introducendo dei correttivi che si impongono per necessità. Uno è dato da una concezione elastica, che prevede un’Europa a più velocità. Si tratta di ripensare il modello di unificazione, che non può essere uniformante ma integrante. L’Europa universale non può dissolvere la particolarità dei Paesi membri. Per questo il legame deve essere elastico, rispettoso delle legittime autonomie nazionali. L’Europa del futuro dovrà, per sopravvivere, postulare piani diversi di integrazione. Coloro che affermano che la crisi europea può essere risolta con una maggiore verticalizzazione e centralizzazione dei poteri, mostrano di non comprendere come proprio in questa centralizzazione risieda la causa della crisi. La centralizzazione è la causa della reazione dei populismi e dei movimenti xenofobi e nazionalistici che stanno prendendo luogo ovunque sul suolo europeo. Questi movimenti vanno contrastati restituendo valore alla politica. Gli Stati devono avere gli strumenti per fronteggiare le crisi e provvedere al bene comune. In ciò l’Europa deve essere alleata degli Stati membri, non loro nemica.

Radici cristiane”: come si declina nel 2017 questo concetto elaborato dai papi del recente passato, in particolare San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI?

La formulazione delle radici cristiane dell’Europa ha incontrato, com’è noto, l’opposizione di taluni Stati, in primis la Francia. Taluni tenevano a questa definizione, storicamente corretta (come si può pensare che l’Europa, che fino all’era moderna non era ancora divisa in Stati nazionali, non abbia la sua genesi nel cristianesimo?), contro l’ingresso della Turchia in Europa. Costoro oggi non hanno problemi. Dopo il recente referendum imposto da Erdogan la Turchia difficilmente potrà entrare nell’UE nei prossimi anni. Riguardo alle “radici cristiane” occorre dire che le radici sono importanti, dal punto di vista storico, ma lo è di più l’albero e, con esso, le foglie. Le foglie sono verdi? Il cristianesimo è oggi attuale in Europa o ha i caratteri senili di una creatura che va morendo? Nel Nord Europa, con la parziale eccezione della Germania, la fede cristiana è un ricordo del passato. Le Chiese divengono pub, sale per esposizioni, discoteche. Questo è il vero problema. All’Europa allora occorre chiedere il rispetto dei diritti della coscienza religiosa, la libertà di espressione pubblica e privata, il rispetto delle tradizioni religiose dei popoli. Di fronte a un totalitarismo tecnocratico, omologante, la Chiesa dovrebbe chiedere alle istituzioni europee la tutela della libertà religiosa, come cardine fondamentale delle libertà civili.

Ha senso parlare ancora di “radici cristiane” in un tempo di avanzante multiculturalismo e di sempre più incalzanti migrazioni?

Ha senso sul piano storico. Sul piano effettivo il problema è che le nostre città, così ricche di chiese e di monumenti che ci ricordano la presenza cristiana, costituiscono, spesso, un museo all’aperto. Abbiamo conventi, monasteri, scuole che si svuotano perché gli istituti religiosi vengono meno. Il cristianesimo è chiamato a ripensare la sua presenza sul suolo europeo. Questo non significa un ritorno alle catacombe o all’idea elitaria delle piccole comunità che resistono durante la tempesta. Non si tratta di resistere ma di incontrare, in forma positiva e aperta, gli uomini di oggi: gli europei divenuti “pagani” e i non pagani che provengono da fuori. Al contempo la proposta cristiana non può non ridare vita e vigore a quella religiosità popolare che ancora sopravvive in molta parte del suolo europeo. È quanto sta facendo papa Francesco con la sua testimonianza, capace di dare speranza ai vicini e ai lontani. Il Papa è oggi l’unica vera autorità morale in Europa.

I pronunciamenti (in particolare quello del 24 marzo scorso ai capi di stato e di governo riuniti a Roma per il 60° del Trattato) di Francesco, primo papa non europeo, segnano, a suo avviso, una continuità o una discontinuità con i suoi predecessori?

La prospettiva di Francesco si colloca in perfetta identità con quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, papi che hanno vissuto sulla loro pelle la divisione tragica dell’Europa. Bergoglio, da provinciale gesuita e da cardinale di Buenos Aires, ha sempre appoggiato l’idea della “Patria Grande” latinoamericana, cioè di una confederazione degli Stati dell’America Latina. Così, da papa, ha, in più occasioni, invitato l’Europa a uscire dal torpore e dalla crisi che l’attanaglia attualmente. Nel discorso ai capi di Stato e di governo che lei ricordava, il Pontefice ha sottolineato in particolare come l’Unione Europea sia nata «come unità delle differenze e unità nelle differenze», sottolineando anche il carattere di «comunità» e di «solidarietà», da lui visto come «il più efficace antidoto ai moderni populismi».

Andando a ritroso nel tempo: è pertinente azzardare un parallelo tra l’Unione Europea contemporanea e il Sacro Romano Impero medioevale? Quali i tratti in comune e quali le differenze?

Questa analogia poteva avere un senso per l’Europa “carolingia” del 1957, non certamente per quella attuale. Anche in quel caso si trattava, però, di un’analogia geografica. Il cristianesimo dell’era carolingia univa romani e barbari. L’Europa odierna viene dopo le guerre di religione, dopo la divisione dell’Europa cristiana. Ha un suo significato “ecumenico”, facilita la ricucitura di quelle divisioni e di quei muri che hanno diviso la modernità europea nelle barriere degli Stati nazionali, barriere degenerate in nazionalismi apportatori di guerra. Cattolici, ortodossi, luterani, anglicani si sono ritrovati per la prima volta uniti dopo secoli di contrapposizioni. La distensione politica ha certamente favorito anche quella religiosa. È un peccato, da questo punto di vista, che l’Inghilterra anglicana abbia deciso di andarsene. Il processo ecumenico è, però, ormai irreversibile e trascende le distanze politiche.

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