Hans-Georg Gadamer a vent’anni dalla morte

Il 13 marzo 2002 muore ad Heidelberg, a 102 anni, Hans-Georg Gadamer, allievo di Heidegger, uno dei più illustri filosofi del Novecento. Lo ricordo con una intervista che, insieme con Tommaso Ricci, curatore di Mizar e attualmente responsabile della redazione cultura e spettacoli del Tg2, gli facemmo il 31 settembre 1985 nei giardini di Castel Gandolfo, dove Gadamer si trovava per gli incontri filosofici estivi che Giovanni Paolo II teneva ogni anno (nelle foto). L’intervista, uscita nel mese di ottobre nel mensile internazionale 30Giorni, viene ora riproposta nel numero 1(2022) della rivista «Studium». La riproponiamo qui a ricordo dell’illustre pensatore.

Il fascicolo può essere acquistato presso Edizioni Studium, via Crescenzio 25, per telefono 06-6865846, oppure (preferibilmente) per e-mail amministrazione@edizionistudium.it.

Heidegger, l’ermeneutica, il cristianesimo. A vent’anni dalla scomparsa di Hans-Georg Gadamer

di Massimo Borghesi

Sono trascorsi 20 anni dalla scomparsa di Hans-Georg Gadamer (Marburgo, 11 febbraio 1900-Heidelberg, 13 marzo 2002). Gadamer è stato uno dei più significativi pensatori della seconda metà del Novecento. Allievo di Heidegger, con cui si abilitò a Marburg nel 1929, è stato professore ordinario di filosofia a Lipsia, a Francoforte, ad Heidelberg. La sua fama, oltre ai preziosi studi sul pensiero greco e su Hegel, è affidata principalmente alla sua opera edita nel 1960 Wahreit und Methode (Verità e metodo, tr. it., Milano 1972), il cui sottotitolo Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik (Elementi di una filosofia ermeneutica) ne indica l’intento in un ripensamento del problema ermeneutico in funzione della sua incidenza sul problema della verità. In stretto rapporto con l’opera di Schleiermacher e di Dilthey, l’indirizzo ermeneutico ha rappresentato, negli anni Sessanta e Settanta, una reazione alle correnti antiumanistiche dominate dal positivismo, dallo strutturalismo, dal decostruzionismo, dal marxismo.

Ricordiamo il pensatore con una intervista che, insieme con Tommaso Ricci, curatore di Mizar e attualmente responsabile della redazione cultura e spettacoli del tg2, gli facemmo il 31 agosto 1985 nei giardini di Castel Gandolfo, dove Gadamer si trovava per gli incontri filosofici estivi che Giovanni Paolo II teneva ogni anno.[1] L’intervista uscì il mese successivo sul mensile internazionale 30 Giorni.[2] La riproponiamo a ricordo dell’illustre pensatore.

Quali incontri, studi, interessi, sono stati più importanti nel periodo della sua formazione culturale?

Ho compiuto i miei studi universitari a Marburg nel periodo seguente alla prima guerra mondiale. Regnava allora una grande confusione e incertezza negli animi. Anche per questo i miei interessi personali furono all’inizio molto vasti e privi di un orientamento preciso. All’Università non esisteva un curriculum, percorrerla era come iniziare un’Odissea. Studiai il Corano, il sànscrito, storia, letteratura, arte, ecc., alla fine la filosofia mi parve la più attraente e mi volsi a essa. Marburg era allora, nell’ambito filosofico, la culla del neokantismo, un indirizzo attento in modo rigido alla problematica scientifica e metodologica. Mio maestro fu Paul Natorp, con il quale svolsi la mia dissertazione su Platone. Conobbi pure e strinsi amicizia con il suo successore a Marburg: Nicolai Hartmann. La mia preparazione culturale e la mia sensibilità mi portarono ben presto in una direzione molto distante da quella della scuola neokantiana. Mi interessava l’arte, la letteratura, la poesia… in una parola il Romanticismo tedesco in generale. Così quando dopo la dissertazione, che avvenne nel 1922, andai a Friburgo studiando Aristotele con Heidegger, trovai conferma al fatto che esisteva un’altra dimensione intellettuale: non solamente il rigorismo neokantiano, ma anche Dilthey, lo storicismo, la fenomenologia della religione, ecc. L’incontro con Heidegger fu per me una rivelazione nel senso che mi resi conto come nei quattro anni passati a Marburg avessi appreso ben poco.

Martin Heidegger era allora assistente di Husserl, il padre della fenomenologia. Come avvenne l’incontro con lui?

Mah, molto semplicemente. Ci incontrammo in Istituto dove Husserl, ogni volta, mi presentava dicendo: «Questo è il dottor Gadamer, proveniente da Marburg per studiare con il mio discepolo Heidegger!». A Friburgo mi impegnai per la prima volta in modo molto serio nello studio del pensiero classico. Fu quasi un modo per sottrarsi all’indiscutibile genio filosofico di Heidegger. Volevo approfondire un campo in cui egli non fosse direttamente competente. Heidegger non era un classicista. Così anche la mia tesi di abilitazione verté ancora su Platone anche se il disegno originario comprendeva Aristotele, una sua lettura diversa rispetto a quella evoluzionistica proposta da Werner Jaeger.

Dopo l’abilitazione cosa fece? Iniziai a insegnare come Privatdozent a Marburg. La mia carriera universitaria fu poi ritardata dal fatto che, con l’avvento del nazismo, non entrai nell’organizzazione del partito. Solo nel 1938 ebbi la cattedra avendo poi come collega Karl Löwith.

La sua formazione deve molto ad Heidegger. Ci furono altri autori o correnti che influirono su di lei?

Certo, Heidegger in primo luogo e poi i greci: Platone, Aristotele, i presocratici. Ma anche, più o meno indirettamente, la scuola di Dilthey con lo storicismo tedesco. E poi Hegel naturalmente.

Nei suoi scritti cita spesso Max Scheler. Il suo pensiero rivestì importanza per lei?

Scheler era affascinante, un poco… satanico, come la danza del diavolo, ma affascinante. Aveva un grande entusiasmo. Di lui mi interessò non tanto la teoria dei valori quanto la sua ultima riflessione, i temi del lavoro, il pragmatismo, e poi il dualismo spirito-impulsi. Da parte mia vidi un superamento di questo dualismo nell’idea heideggeriana di temporalità dell’esserci.

La sua posizione filosofica si qualifica come «ermeneutica». Che cosa significa esattamente?

Ermeneutica nel senso tradizionale significa teoria dell’interpretazione dei testi, fare parlare una parola pietrificata. Questo però non è che un primo livello dell’interpretare. Generalizzando il concetto esso include la comunicazione tra persone, l’interpretazione dei segni mediante cui si esprime il linguaggio. Da questo punto di vista il luogo dell’ermeneutica è il dialogo in senso socratico-platonico. La riflessione sul dialogo platonico è realmente il mio punto di partenza e questo forse, ancora una volta, per distanziarmi da Heidegger la cui incapacità al dialogo era cosa nota. Pensi che allorché nel dopoguerra egli stava rientrando nella scena culturale della Germania, Ortega y Gasset veniva ad ascoltare le sue conferenze. Allora Heidegger mi invitava a partecipare dicendomi: «Vieni, vieni, Ortega è così aggressivo!». Così io dovevo fare il difensore di Heidegger.

È proprio dell’indirizzo ermeneutico il radicare l’attività del pensiero all’interno di una «situazione» storico-ambientale. Ciò lo accomuna allo storicismo e all’esistenzialismo. Al contempo esso afferma la trascendenza del pensiero e il suo essere orientato verso la verità. Come conciliare questi due momenti?

Questo problema esiste già in Aristotele là dove tratta, per esempio, del diritto naturale. Il diritto per Aristotele ha un aspetto non mutabile; al contempo però esso si mostra in forme diverse a seconda delle circostanze storiche e ambientali. È il problema del rapporto tra ciò che è generale e il particolare, tra la norma e la sua declinazione specifica, tra l’uno e il molteplice. Questo mi pare il mistero attorno a cui ruota la filosofia classica. In sede ermeneutica questo rapporto tra verità e storia conduce a un relativismo che non è però scetticismo.

L’ermeneutica persegue quindi come fine ideale la verità in senso oggettivo?

Certamente. Lo scetticismo nega l’idea stessa di verità mentre l’ermeneutica puntualizza piuttosto la limitatezza della nostra conoscenza affermando che noi cogliamo solo un aspetto del vero. Il metodo di questa approssimazione alla verità è il dialogo. Nel dialogare socratico- platonico i molti aspetti dell’essere emergono via via alla luce senza che per questo l’idea sia afferrata nella sua totalità. Solo il dio, secondo Platone, non filosofa; l’uomo, invece, in quanto finito, deve fare filosofia, deve cioè cercare la verità che non possiede.

Al centro della posizione «ermeneutica» v’è una critica radicale dell’idea moderna di soggettività. Questa critica investe anche il concetto di persona cristianamente inteso? Lei, nella sua critica alla modernità, sembra voler tornare ai greci. La nozione di soggettività in senso cristiano non ci separa, come già affermava Hegel, irrevocabilmente da loro?

Occorre distinguere tra soggetto e persona: la critica è verso l’idea di soggetto, non di persona. È chiaro che un ritorno verso i greci non è un ritorno reale; è solamente un appello, un correttivo per la nostra unilateralità. Nella sua accezione moderna il «soggetto» è il punto a partire dal quale ogni realtà diviene «oggetto», cosa. In questo senso, credo, è necessario tornare verso i greci dove non esistono né un concetto di «oggetto» né un concetto di «soggetto». Ma naturalmente l’idea di «persona» è la nostra eredità cristiana vivente in tutta la cultura odierna. Pensiamo al tema dei «diritti umani» così profondamente connesso a quest’idea, la critica di ogni forma di violenza sull’essere umano, dalla tortura alla schiavitù, che essa comporta. Questa nozione non può non essere condivisa anche dalla cultura laica. Il ritorno ai greci ha allora solo il valore di una correzione rispetto alla deviazione dello spirito moderno che non conosce altro senso di persona che quello di «soggetto».

Veniamo alla crisi presente. In un’intervista rilasciata da Heidegger alla rivista Der Spiegel nel settembre 1966, e pubblicata all’indomani della sua morte (maggio 1976), egli affermava tra l’altro: «Nur noch ein Gott kann uns retten» (Solo un Dio può salvarci). Cosa intendeva Heidegger con questa frase?

Non sarei sicuro che egli stesso avesse chiaro fino in fondo ciò che intendeva designare con quell’affermazione. Forse da un lato voleva richiamare il fatto che l’umanità del nostro tempo, con le sue smisurate possibilità grazie alla scienza e alla tecnologia, non è però in grado di salvarsi, dall’altro sembra riferirsi all’attesa di qualcosa di divino, una nuova solidarietà tra gli uomini, magari, di fronte alle minacce che incombono sul pianeta. Io direi che Heidegger non sapeva operare esattamente una scelta tra queste due interpretazioni della sua sentenza.

Heidegger ebbe un funerale cristiano. Quale significato dare a questo fatto?

Sì, egli rispettava la tradizione della religione cristiana e tuttavia introdusse in questo culto funerario anche una religione privata inserendo citazioni di Hölderlin nella cerimonia.

Lei personalmente cosa pensa del cristianesimo? Può costituire la risposta all’enigma dell’esistenza?

Il problema della trascendenza, della morte, della memoria della morte, della connessione eterna con le generazioni antecedenti è un contenuto essenziale di ogni forma di cultura. L’esistenza ha come centrale il problema della morte. Il cristianesimo si propone come soluzione di questa realtà; una soluzione molto difficile da accettare per l’illuminismo moderno, e tuttavia un’offerta reale perché anche l’illuminismo non può cambiare il nostro limite, la nostra finitezza e anche la nostra coscienza della morte. Per questo dire che non c’è trascendenza è cecità. Noi siamo sempre esposti alla religione, non esiste l’ateismo perfetto. La genesi stessa della filosofia implica il problema della trascendenza. L’interrogare dell’uomo intorno al reale, questa apertura al mondo, è un fenomeno unico della natura.

C’è un’analogia tra questa apertura alla trascendenza e la posizione di Jaspers?

Sì, c’è una certa convergenza; però in Jaspers c’è sempre un atteggiamento antidogmatico mentre io giudico diversamente riguardo alla teologia. Io sono protestante, tra l’altro sono stato amico di Bultmann. Nel protestantesimo l’atteggiamento critico, l’autoesame continuo, l’oscillare tra la credenza e il dubbio, è proprio sia della fede che della ragione. Questa ambiguità è propria di tutta la filosofia moderna.

Questo suo dirsi protestante significa che lei è credente in senso positivo? La domanda così posta è per me ambigua. Le potrei rispondere che dirsi non credente non ha senso. Il problema è di una meditazione e di un’apertura continue, che non vengano mai meno.

Chi è per lei realmente Gesù Cristo?

Questa domanda è difficile. Se io affermo essere Cristo l’incarnazione di Dio, certo sono cristiano. Però noi ci troviamo, in quanto uomini moderni che veniamo dopo l’illuminismo, in una situazione difficile e ambigua. Io cioè conosco e capisco l’offerta di questo messaggio e d’altra parte non sono capace di giustificare la decisione che esso comporta; riconosco l’espressione «sacrificio dell’intelletto» ma mi pare che sia una richiesta che è come impossibile. Mi pare che debba essere un atto di grazia e non di libertà.

La crisi morale odierna, che comunemente si denomina scetticismo e nichilismo, non è in stretta dipendenza, come già affermava Nietzsche, con la «morte di Dio» che segna progressivamente l’Europa e poi il mondo a partire dal secolo passato?

La profezia di Nietzsche mi pare volutamente provocatoria, eccessiva, molto simile all’oblio dell’essere di cui parla Heidegger. Non credo che il nichilismo sia il destino dell’umanità, c’è un radicalismo in Nietzsche che dipende da una sua profonda sincerità, da una sua tendenza di andare all’estremo. Ne La gaia scienza, d’altra parte, chi annuncia la morte di Dio è l’unico pio. Nella mia ottica la crisi attuale risulta profondamente connessa con il nuovo pluralismo che caratterizza le società attuali. La crisi nasce nell’incontro tra la cultura europea e le altre culture, estremamente diverse dalla sua. Affidarsi solo alla carta del progresso tecnologico-scientifico, come accade quasi sempre, significa smarrire la propria identità e non avere più una fisionomia specifica. L’Europa, e con essa gli Stati Uniti, diventano allora solo l’espressione di un calvinismo secolarizzato.

Professore, un’ultima domanda. Cosa pensa del momento attuale della Chiesa cattolica?

La situazione attuale è dominata dal conflitto tra ateismo e religione il quale determina il terreno e l’orizzonte spirituale. Questo è un dato nuovo che non ha riscontri con la situazione passata. Mentre in precedenza la contesa era tra le varie religioni o confessioni religiose ora l’avversario comune non può non essere l’ateismo. Questo fatto, l’esistenza di una comune minaccia, deve far sentire le varie religioni più vicine tra di loro. Mi pare che la Chiesa di Roma sia estremamente consapevole di questo compito, della provocazione che esso comporta.

Massimo Borghesi

[1] AA.VV., Über die Krise. Castelgandolfo-Gespräche 1985, Inst. für d. Wiss. vom Menschen. Hrsg. von Krzysztof Michalski, Klett-Cotta, Stuttgart 1986.

[2] Georg Gadamer, allievo di Heidegger, amico di Platone, intervista a H.G. Gadamer a cura di Massimo Borghesi e Tommaso Ricci, in 30 Giorni, 9, 1985, pp. 56-60.

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