Recensione a Fabrice Hadjadj – Fabrice Midal, Qu’est-ce que la vérité?, Parigi 2010

Fabrice_Hadjadj[1]Presentiamo la recensione, apparsa sul numero di marzo 2011 di Philosophical News, periodico filosofico cartaceo e online che Massimo Borghesi ha dedicato al volume “Qu’est-ce que la vérité?” (Salvator, Parigi 2010, ora tradotto anche in italiano da Lindau) tra due intellettuali e filosofi di orientamento diverso, entrambi di origine ebraica: Fabrice Midal, docente di meditazione buddhista, e Fabrice Hadjadj (nella foto), di origini tunisine, ateo e anarchico fino alla conversione al cristianesimo.

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Il volume, che esce nella collana «Controverses» dell’editrice parigina Salvator, raccoglie il dibattito svoltosi il 4 giugno 2010 a cura del Centre théologique univer­sitarie di Rouen, sul tema della verità indicato nel titolo. La disputa è affidata a due intellettuali, filosofi di orientamento diverso, entrambi di origine ebraica: Fabrice Midal, docente di meditazione buddhista, e Fabrice Hadjadj, di origini tunisine, ateo e anarchico fino alla conversione al cristianesimo, autore di una dozzina di volumi di cui alcuni tradotti in italiano (Mistica della carne. La profondità dei sessi, Medusa 2009; Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, Cittadella 2009; La fede dei demoni, Marietti 2010; La terra strada del cielo. Manuale dell’avventuriero dell’esistenza, Lindau 2010). La disputa, di notevole interesse, mette di fronte a due possibili esiti, opposti, della lunga stagione del post-‘68 francese: da un lato un pensatore buddhista che ritrova la mistica dell’Oriente al termine della decostru­zione nichilista, nietzschiana e heideggeriana, della soggettività; dall’altro un ateo che riscopre, mediante la conversione al cristianesimo, il rilievo dell’io, della rela­zione intersoggettiva, del realismo come incarnazione. Il volume esordisce, nella prima parte, con una riflessione distinta, da parte degli autori, sul tema della verità, a cui segue, nella seconda, il “debat”, la dialettica delle domande e delle risposte.

Spiegando il suo punto di vista il primo Fabrice, Midal, giustifica la sua apparte­nenza alla tradizione del buddhismo indo-tibetano tantra per la sua dottrina sulla «nature veritable de toutes choses qui constitue le continuum ininterrompu sous­jacent au samsara et au nirvana» (ivi, p. 21). La natura profonda, reale, è continuità ininterrotta «par-delà la dualité apparente» (ibidem), oltre i dualismi che segnano la storia della metafisica. Il messaggio di Buddha è «une pensée non marquée par la métaphisique occidentale» (ivi, p. 22). Ciò che egli insegna è un’altra “verità”. Nel caso dell’uomo ciò significa andare al di là de «l’union d’une raison et du sentiment, de l’âme et du corps» (ibidem). Per Midal «la voi du Buddha est une pensée tout autre de l’être de l’être humain» (ivi, p. 23). Per comprenderlo, oltre la ragione e il sentimento, occorre situarsi in un orizzonte meta-antropologico. Lungo questa china Midal riscopre la tradizione dei moralisti francesi, di coloro che hanno criticato la roccaforte dell’“io”, lo hanno spogliato di ogni alone, gettato nella polvere. Questo ego è «une mascarade qui, sous prétexte de nous protéger de tout, nous fait vivre de façon radicalment inauthentique. Ce moi-moi-même­et-ancore-moi, voilà ce que les grands penseurs français que sont Molière ou La Rochefoucald ont nommé l’amour propre (et que Rousseau oppose à l’amour de soi) et que la tradition bouddhique tente de penser comme non-ego» (ivi, p. 33).

Da La Rochefoucauld a Buddha, passando per Nietzsche e la sua decostruzione del soggetto – per il Nietzsche erede di Schopenhauer e della sua critica buddhi­sta al principium individuationis – il percorso di Midal è chiaro. È l’esito mistico, orientale, post-umanistico, delle critiche decostruzionistiche conseguenti al “‘68 pensiero”. A questa fuga da “sé”, dal mondo, l’altro Fabrice, Hadjadj, oppone la via del realismo ebraico-cristiano, la via di Buber, di Rosenzweig, di von Balthasar: quella sulla persistenza dell’io, più forte di ogni negazione, sulla strutturale rela­zione io-tu, identità-alterità. La «vérité, c’est que nous sommes ici, moi, Fabrice Hadjadj, vous, qui m’entendez, qui m’écoutez peut-être, avec le foutu désir de béatitude dans les entrailles, et en même temps la peur au ventre devant la mort» (ivi, p. 50). Ciò significa che siamo dramatis personae, «protagonistes d’un drame» (ivi, p. 51). La vita non è una continuità indolore dove il contrasto è apparenza, come vorrebbe Midal. La vita è la “prova”, nella lotta tra il positivo e il negativo, tra la gioia e il dolore. «La preuve, c’est que l’angoisse devant la mort monte en même temps que nos joies terrestres. Plus j’ai de joie a tenir Élisabeth dans mes bras (Élisabeth, c’est ma quatriéme fille), plus aussi j’ai d’angoisse de la perdre» (ivi, p. 52). Rispetto a questo dramma la strategia del “distacco” (détachement), messa in atto da una saggezza vecchia come il mondo, non funziona. Anticipa la morte per paura della morte. «Mais perdre l’angoisse devant la mort, c’est avoir perdu l’émerveillement davant la vie. Parce que ce n’est que dans la mesure où je m’émerveille encore devant la vie, cette vie, celle Élisabeth, celle de Jacob (Jacob, c’est mon fils), ou même celle de Françoise (là, c’est ma belle-mère), que la mort, en tant qu’elle me prive de cette vie que j’aime, peut m’apparaître angoissante. Et c’est pourquoi l’angoisse devant la mort n’est pas l’affection fondamentale de l’existence, mais d’abord, plus profondément, l’émerveillement devant la vie» (ivi, pp. 52-53).

L’angoscia di fronte alla morte non è l’affezione fondamentale. Hadjadj critica lo Heidegger di Sein und Zeit e, insieme, mostra il limite della posizione buddhista. Il timore della morte sorge, in seconda battuta, a partire dall’affezione ad un reale po­sitivo di cui temiamo la perdita. Per questo «la vérité ne doit rien diminuer de mon désir de béatitude, mais elle ne doit rien obscurcir non plus de ma lucidité devant la mort, et donc la vérité ne peut se révéler que dans ce lieu d’extrême tension, à l’endroit même de cette déchirure» (ivi, p. 53). Il che significa che essa è «quelche chose comme une résurrection» (ibidem).

Se la verità è colta in un “dramma” la seconda osservazione che Hadjadj trae dalla nozione di dramatis personae è che noi, i soggetti, siamo protagonisti, non spettatori inerti come il saggio buddhista che osserva la scena dal di fuori. «La véri­té de la situation, c’est que je suis là avec mon visage, et que vous êtes là, chacun, avec le vôtre, et que notre recherche d’un savoir ne doit jamais nous faire oublier cette première vérité-là: nous sommes d’abord des persone avec des noms propres, et le regard de chacun pour l’autre paraît contenir un mystère plus profond que toutes les encyclopédies» (ivi, pp. 53-54). La verità si manifesta in un dramma i cui protagonisti, come affermava Franz Rosenzweig, non sono gli uomini in generale ma le persone con il loro volto, con il loro nome e cognome. «Ce dont il s’agit, ce n’est pas l’homme, mais Robert, Corinne, Fatima, Chögyam ou meme Fabrice

[…] Telle est la réalité, si bien que la Vérité non seulement ne sarait méconnaître la diversité des visages, mais elle ne peut qu’ouvrer pour leur amour et leur com­munion» (ivi, p. 55). Per questo la saggezza, quella vera, «réclame autour d’elle la moltitude des visages» ( ivi, p. 56), non il loro annullamento. Concludendo il suo intervento Hadjadj fissa quattro condizioni entro le quali la verità prende forma: L’incarnation, L’epreuve, Le drame, La communion des visages. Quattro condizioni che, secondo l’autore, trovano la loro realizzazione nel racconto della Passione di Cristo narrata nel Vangelo di Giovanni, di Cristo che di fronte alla domanda di Pilato “Qu’est-ce que la vérité?”, non risponde. Non può rispondere «parce qu’il est lui-même la réponse» (ivi, p. 64).

Il realismo ebraico-cristiano si oppone, in tal modo, al buddhismo post-moder­no dell’ebreo (di origine) Midal. Il dibattito che segue, tra i due autori, illumina le prospettive marcando le differenze. Alla domanda di Hadjadj: «Quelle consistance donnes-tu à la diversitè des voix et des visages?» (ivi, pp. 73-74), Midal ribatte che «Le “moi-moi-même-et-encore-moi” est cette crispation qui nous empêche d’entrer en rapport avec la vérité» (ivi, p. 77). Il “me”, l’io, non è il “proprio”, il profondo meta-personale. «Le moi n’est pas haïssable, il est illusoire, un effet d’op­tique qui recouvre notre être propre» (ivi, p. 78). Questo è l’autentico messaggio di Buddha. «Je crois donc qu’on peut dire que le “non ego” est la vérité la plus simple de l’existence humaine» (pp. 80-81). È la verità che si apre alla dimensione mistica, nell’opera ad es. di Madame Guyon a cui Midal ha dedicato un capitolo nel suo volume Et si de l’amour on ne savait rien? (Albin Michel, Paris 2010). All’obiezione di Hadjadj, per cui c’è mistica e mistica, una mistica de-realizzante e un’altra che si fonda su «la necessité d’une médiation, d’un rapport à l’autre» (ivi, p. 94), Midal ribatte che «la vérité de mon être n’est pas d’être un “moi” ni un “sujet” face à des objects et d’autres sujects!» (ivi, p. 99). La mistica non ricade nel soggettivismo; essa introduce in quella terra di nessuno che è oltre «le rapport moi-autre» (ivi, p. 102), introduce al continuum profondo della natura dove non ci sono più barriere, distinzioni tra soggetto e oggetto, dove «on n’a pas besoin pour cela de rigidifier “moi” et “autre”, pas plus qu’on a besoin d’une mediation» (ivi, pp. 102-103). Nel­la natura si è originariamente uniti nel vincolo della compassione universale, oltre le differenze io-tu, io-mondo, che implicano, come tali, il problema del “terzo”, della mediazione. Una posizione ermeticamente chiusa alla provocazioni “perso­nalistiche”, al realismo esistenziale patrocinato da Hadjadj. A cui non rimane che riaffermare, contro ogni detachement di tipo orientale l’insopprimibile realtà del proprio essere individuale. «La question, ce n’est pas “être pour autrui”, la que­stion, c’est moi, Fabrice, face à vous, Georges… Parce que ce qui importe, c’est de retrouver le sens du nom propre, de l’irréductibilité du nom propre désignant une personne unique» (ivi, p. 108). Tutto questo contro la fascinazione dell’astratto che «perd de vue la primauté du visage, la primauté de la rencontre, la primauté de l’événement» (ivi, p. 109).

Massimo Borghesi University of Perugia borgmax@inwind.it

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