Religione e politica. I punti fermi di Marta Cartabia

Tutta la stampa, in modo pressoché unanime, ha accolto positivamente la nomina di Marta Cartabia a presidente della Corte costituzionale, la prima donna chiamata a ricoprire questo altissimo incarico. Personalmente ne sono profondamente lieto per l’amicizia che, da molto tempo, ci lega, per la grande stima che ho per lei e per una riflessione intellettuale che, sui punti fondamentali del rapporto tra fede e politica, Chiesa e Stato, ci accomuna in profondità. A riprova di ciò pubblico qui due suoi testi concernenti la relazione tra teologia e politica.

Il primo è la lettera da lei inviata in occasione della presentazione del mio volume Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana (Marietti 2013) a Palazzo San Macuto (Camera dei deputati) il 16 dicembre 2013. Erano presenti Vincenzo Tondi della Mura ordinario di Diritto costituzionale dell’Università del Salento, Massimo Luciani ordinario di Diritto costituzionale presso la Sapienza, Stelio Mangiameli ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Teramo, Gustavo Zagrebelsky emerito di Diritto costituzionale all’Università di Torino e presidente emerito della Corte costituzionale. Marta Cartabia doveva introdurre ma, per impegni istituzionali, non poté partecipare. Da qui la lettera inviata al prof. Tondi della Mura, organizzatore della presentazione.

Il secondo testo è la Prefazione al volume di Francesco Occhetta Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo dei populismi,San Paolo, 2019, pp. 7-16.

In ambedue i testi è manifesta una continuità di ispirazione ideale, un insieme di punti di fermi che, in un tempo dominato da settarismi e manicheismi ideologici, sono sicura garanzia per lo svolgimento dell’alto ruolo che ora è chiamata a rivestire.

 

Il testo della lettera letta durante la presentazione del 16 dicembre 2013.

 

Milano 15 dicembre 2013:

Carissimo Vincenzo,

una sfortunata sovrapposizione di impegni, mi impedisce di partecipare al dibattito che hai organizzato intorno al bel libro di Massimo Borghesi, Critica della teologia politica.

Sono sinceramente dispiaciuta, per molte ragioni: anzitutto, perché è sempre sgradevole ritirare una disponibilità promessa da mesi; in secondo luogo, perché al dibattito parteciperanno persone a cui mi sento legata da profondi sentimenti di stima, di amicizia, di debito intellettuale, tra cui, in primis l’Autore del libro; infine, perché sono certa che mancherò ad una occasione di grande arricchimento culturale.

Il libro che discutete mi ha regalato un’infinità di spunti di riflessione, su problematiche che mi interrogano da tempo.

Ripercorrendo il complesso rapporto tra teologia e politica, attraverso un’analisi storica che copre un arco temporale straordinariamente ampio, il lavoro di Massimo Borghesi ai miei occhi ha anzitutto – il grande merito di chiarire un dato, cioè a dire che i continui cedimenti verso la teologia politica che attraversano la storia occidentale, non appartengono al cristianesimo delle origini, fondato invece sulla distinzione tra il regno di Cesare e il regno di Dio. Non vi è traccia di teologia politica fino all’editto di Costantino – sul quale, da milanese, ho a lungo riflettuto in questo anniversario (313-2013) – vero e proprio emblema della libertà di religione per tutti, in vista del bene comune e dell’interesse pubblico. La commistione dei piani inizia in un momento successivo e riemerge in varie forme lungo la storia del pensiero, come questo volume documenta con tanta ricchezza di fonti.

Accompagnata dalla colta penna di Massimo, ho scoperto autori a me ignoti (per tutti Peterson) e riletto altri pensatori sotto diverse angolature: le oscillazioni nel pensiero di Agostino, le ambiguità di Carl Schmitt, le posizioni culturali di tanti statisti che hanno segnato la nascita della repubblica italiana, le diverse fasi del pontificato di Giovanni Paolo II, e poi Bockenförde, Habermas, fino al post-secolarismo contemporaneo. Di questa grande sintesi gli sono profondamente grata.

Questo libro – una vera e propria maratona culturale sulla teologia politica – illumina i termini di una problematica, di crescente attualità, senza pretendere di “risolvere” in un assetto definitivo un rapporto, quello tra teologia e politica, che è strutturalmente irrisolvibile e necessariamente dialettico, di una dialettica senza sintesi, come nota l’A citando Serra (p. 326).

Nelle sue pagine ho sentito riecheggiare il pensiero del cardinale Ratzinger e di Benedetto XVI, sul quale ho avuto a mia volta occasione di riflettere negli ultimi tempi: <<la storia è per così dire il regno della ragione>> e <<la politica non instaura il Regno di Dio, ma deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo>> (Europa: i suoi fondamenti, oggi e domani 2004).

Un rapporto lega, dunque, l’ordine politico e quello teologico: non una estraneità; ma un rapporto tra sfere che sono e debbono essere distinte, paradossalmente unite da un ineliminabile delta, da un inevitabile scarto, che per il giurista prende la forma della inesauribile dialettica tra diritto e giustizia, risorsa fondamentale per l’incessante riforma del sistema giuridico e garanzia vera contro gli arbitri del potere.

Ti prego di salutare affettuosamente ciascuno dei presenti, pregandoli di accettare le mie scuse.

Buon Natale a tutti.

Marta Cartabia

 

 

Qui un estratto della Prefazione di Marta Cartabia al volume di Francesco Occhetta Ricostruiamo la politica. Orientarsi nel tempo dei populismi, San Paolo, 2019, pp. 7-16.

 

«Non guardate la vita dal balcone!»[1] Quante volte questa immagine di papa Francesco ha richiamato i cristiani alla importanza dell’ impegno anche nell’ ambito politico e a servizio del bene comune? Uscire dal proprio privato e partecipare alla vita della “piazza” per collaborare alla costruzione della casa comune è compito di ogni fede autentica, che non è mai comoda né individualista[2].Come i suoi predecessori, il Pontefice ha spesso segnalato l’ urgenza della buona politica: non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza delle fazioni, delle ideologie o dei centri di interessi, o addirittura preda della corruzione; ma della buona politica, che è, cioè, capace di includere, che sa essere coraggiosa e prudente allo stesso tempo, responsabile, collaborativa, disposta anche a lasciare le sue buone idee, senza abbandonarle, per metterle in discussione con tutti nella ricerca del bene comune. La politica, meglio: la buona politica – ricorda il Santo Padre – è annoverata tra le più nobili forme di carità dalla dottrina sociale della Chiesa.

Il primo merito di questo volume di padre Occhetta, attento osservatore e prolifico commentatore della vita sociale, è anzitutto quello di raccogliere il richiamo del Pontefice a non trascurare la dimensione pubblica della vita di fede, farlo proprio e riproporlo anzitutto ai cattolici come urgenza in questo nostro tempo. Nel nostro tempo: le sue riflessioni si immergono nel contesto storico attuale e da tale prospettiva si interrogano sulla presenza dei cattolici nella vita pubblica. (…).

L’ Autore ben conosce l’ apporto dei cattolici alla politica italiana, sin dall’ epoca della fondazione della Repubblica: il suo volume Le radici della democrazia[3] approfondisce con sguardo attento il contributo dei politici democristiani ai lavori dell’ Assemblea Costituente, collocandolo nel più ampio dibattito culturale del mondo cattolico di quell’ epoca, incluso in particolare il confronto con le posizioni dei Gesuiti della Civiltà Cattolica. Il seguito della storia è noto: l’ esperienza della Democrazia cristiana, il partito politico di riferimento naturale dei credenti per oltre quarant’ anni, è tramontata da tempo. La società italiana nel frattempo si è profondamente trasformata, sotto la spinta della secolarizzazione, della laicizzazione dei costumi e del pluralismo culturale. L’ Autore prende atto con schiettezza di questi cambiamenti, osservando che i cattolici nella vita pubblica non costituiscono più “la massa”, ma sono chiamati a essere quel “lievito” di evangelica memoria che, senza clamore, trasforma. Sebbene non più in maggioranza, i cattolici sono sempre di nuovo chiamati a contribuire alla vita pubblica italiana. Dopo aver dominato la scena per molti decenni, ora la presenza dei cattolici rappresenta una minoranza, una delle tante minoranze del tessuto sociale odierno, ad alta valenza pluralistica e composita, una minoranza forse anche esigua: ma una minoranza che può essere creativa, costruttiva e vitale. L’ attuale condizione numericamente minoritaria dei cattolici nella società italiana (e occidentale) non è dunque una condanna (o un alibi) che costringe il credente a ritrarsi in ambiti privati, ma una spinta a uscire delle forme note, alla ricerca di nuove modalità di presenza, adeguate ai tempi e al contesto. La situazione sociale data è dunque una condizione propizia anche per una riflessione interna in ambito cattolico, sui propri rapporti con il mondo e con il potere civile.

Padre Occhetta difende il pluralismo delle scelte possibili in campo politico quando sottolinea che la vera sfida non è l’ unità politica dei cristiani, ma come costruire l’ unità nel pluralismo. Nelle sue riflessioni sembra di avvertire un’ eco della nota affermazione di Giovanni XXIII: «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas»[4], peraltro riferita all’ ambito teologico. Di qui l’ insistenza sul bisogno di luoghi di riflessione, di pensiero, di elaborazione di idee: luoghi di incontro e di condivisione, ma di carattere esclusivamente “pre-politico” e “pre-partitico”. La parola chiave è “discernimento”, l’ arte di vagliare per prendere una decisione: un’ arte da esercitarsi con il sostegno di luoghi di intersezione dove mettere in atto il processo di riconoscimento, interpretazione e scelta in relazione ai problemi della contemporaneità, che l’ Autore identifica e segnala all’ attenzione del lettore. Nelle pagine di questo libro non traspare alcuna nostalgia per l’ unità dei cattolici nell’ ambito di una unica formazione partitica; né tanto meno si dà adito ad alcun equivoco sull’ intervento diretto della Chiesa nelle questioni politiche Dal Concilio Vaticano II in poi il percorso di chiarificazione riguardo ai rapporti tra Chiesa e Stato si è sviluppato in modo continuo e incrementale, recuperando lo spirito delle origini del cristianesimo, il quale, sulla scia della massima evangelica, «Date a Cesare quel che è di Cesare», aveva introdotto una alterità e una complementarietà tra ordine spirituale e ordine temporale sconosciuta al mondo pagano. Quella adamantina chiarezza delle origini si è poi offuscata nel corso della storia, a partire dall’ Editto di Tessalonica del 380, con Teodosio[5]. Ma la modernità, innescando un processo di laicizzazione dei costumi e della cultura dominante, è tornata a interrogare la Chiesa sul suo rapporto con la “città dell’ uomo”, sospingendola in un cammino di riflessione e purificazione, sicché l’ invito a occuparsi delle cose della polis è rivolto ai credenti, senza dimenticare che «non è lecito alla Chiesa trasformarsi in entità politica o voler agire in essa o per suo tramite come gruppo di potere»; diversamente, la Chiesa «annichilerebbe sia l’ essenza dello Stato che la propria»[6]. Naturalmente, il cristianesimo come “religione dell’ incarnazione” e come realtà comunitaria interloquisce con la comunità civile e indubbiamente incide sulla vita sociale. Tuttavia, la Chiesa non è chiamata a dare direttive politiche ai credenti né a occupare uno spazio tra i poteri temporali, né tanto meno il posto della religione civile: perciò occorre che permanga sempre una distanza tra la realtà ecclesiale in quanto tale e la realtà mondana, tale da preservare la libertà di tutti.

La ragione profonda di tale ultima alterità è legata alla convinzione che la politica non sia né debba essere l’ ambito degli assoluti: «non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. […] Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’ uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone»[7]. Lo Stato non è la totalità. La storia dimostra le aberrazioni degli Stati che perdono di vista questa condizione. Con linguaggio agostiniano si potrebbe dire che le strutture della polis sono caratterizzate da una necessaria imperfezione e sono aperte a una incessante perfettibilità. Questo alleggerisce il peso all’ uomo politico e gli apre la strada a una politica equilibrata e razionale. La presenza dei credenti nella vita politica corre sul filo teso di una polarità che deve rimanere sospesa. Da un lato sono chiamati a lavorare al cambiamento del mondo, sempre: in modo concreto e sincero, realistico, paziente, umano; dall’ altro, spetta anzitutto a loro non dimenticare che la salvezza del mondo ultimamente non viene dalla sua trasformazione, da una politica divinizzata e innalzata ad assoluto. I credenti partecipano al dramma e alla «bellezza della contraddittorietà del mondo» che E. Przywara segnala come cifra suprema di Agostino[8]. Un contributo primario che il credente può offrire alla politica è – paradossalmente – proprio quello di liberarla da ogni teologia politica di schmittiana memoria, dall’ irrazionalità dei miti politici e dalla pretesa salvifica delle cose mondane. La politica non basta a se stessa e questo è il primo e più radicale contributo che la Chiesa può dare alla vita politica[9].

L’ assolutizzazione del politico porta con sé un manicheismo lacerante e nocivo per la convivenza sociale. Non a caso, la teologia politica di Carl Schmitt ha il suo perno nella logica amicus-hostis. L’ altro è il nemico, è colui che ostacola la realizzazione del progetto ideale. L’ identificazione di un nemico, la sua distruzione e la contrapposizione frontale con tutte le sue proposte e, infine, la guerra sono le caratteristiche ricorrenti nella storia di ogni agire politico che si fa assoluto, che pretende di collocare il cielo in terra.

Antitetico è il pensiero aperto di papa Francesco, che valorizza le polarità del reale, in una dialettica aperta che non prelude a una sintesi la quale fi nirebbe per eliminare uno dei due poli in tensione, ma sa accogliere quella paradossale coincidenza degli opposti e quella concordia polifonica dei diversi di cui tutto il suo pensiero è nutrito. Il suo è «un pensiero della riconciliazione. Non un pensiero “irenico”, ottimistico, ingenuamente progressista, ma, al contrario, un pensiero drammatico, “tensionante”»[10]. Papa Francesco porta uno sguardo sul reale che si è nutrito del pensiero dialettico di matrice cattolica, basato su un modello polare che presuppone l’ idea dell’ altro nell’ io, nella complementarietà, non nella reciproca esclusione. Noti a tutti sono i «quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale […] che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’ interno di un progetto comune»[11]: il tempo è superiore allo spazio; l’ unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’ idea; il tutto è superiore alla parte. Principi le cui potenzialità per orientare le scelte dei credenti impegnati nella cosa pubblica sono ancora tutte da scoprire.

L’ idea di “centrismo”, come sviluppata da padre Occhetta richiamando il pensiero di Luigi Sturzo, riecheggia questa concezione. Nelle sue riflessioni, l’ idea di un “centro” allude, più che a una specifica collocazione dei credenti nell’ agone politico, a una attitudine graduale, compositiva, incompiuta, riconciliativa, temperata e mai estrema. Allude a un luogo – che è allo stesso tempo un cammino – di intersezione, dialogo, mediazione, convergenza, relazione, incontro. Un luogo che sorge da un rapporto con l’ altro (qualunque altro!) valorizzato sempre come bene, piuttosto che come ostacolo[12]: «lo spazio del compromesso […] per superare le contrapposizioni che ostacolano il bene comune»[13], come dice Francesco in totale sintonia con il card. Ratzinger che nel 1981, in un’ omelia, affermava: «Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’ impossibile, è sempre stato difficile. […] Non l’ assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’ attività politica»[14]. Uno spazio di cui si avverte una esigenza tanto più acuta in un tempo in cui la digitalizzazione sta trasformando le forme di comunicazione politica e di creazione del consenso, ove il dialogo si rifrange, perdendosi, all’ interno di echo chambers che alimentano la tendenza alla estremizzazione, esasperando la logica amico-nemico.

In ogni tempo e in ogni condizione, la storia della salvezza è segnata da un instancabile invito a costruire e ricostruire con energia indomita la città dell’ uomo, sia essa Gerusalemme o Babilonia[15]. Oggi, come sempre, costruire si può solo costruendo, in un’ azione il cui soggetto è sempre plurale: «Costruite case e abitatele, piantate giardini e mangiate i loro frutti. […] Cercate il bene della città dove vi ho fatti condurre in cattività e pregate l’ Eterno per essa, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere»[16].

 

[1] Si vedano in particolare del Santo Padre Francesco: Omelia in occasione della celebrazione dei Primi Vespri della Solennità di Maria SS. Madre di Dio, Roma, 31 dicembre 2013; Discorso tenuto per i rappresentanti del Convegno nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015; Anime sedute, Meditazione mattutina, Roma, 13 gennaio 2017 e, infine, Incontro con la cittadinanza, Cesena, 1 ottobre 2017 in w2.vatican.va/.

[2]     FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 183.

[3]     F. OCCHETTA, Le radici della democrazia. I principi della costituzione nel dibattito tra gesuiti e costituenti cattolici, Jaca Book, Milano 2012.

[4]     Enciclica Ad Petri Cathedram, III

[5]     Rinvio per approfondimenti alla splendida ricostruzione di M. BORGHESI, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana, Marietti, Milano 2013, in particolare 31 ss. E 55 ss. E, per capire l’origine di questa dialettica, alla raccolta di testi commentati in H. RAHNER, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, Jaca Book, Milano 1990.

[6]     J. RATZINGER-BENEDETTO XVI, Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio, Cantagalli, Siena 2018, 126-127.

[7]     BENEDETTO XVI, Spe salvi, 24.

[8]     E. PRZYWARA, Agostino inForma l’Occidente, Jaca Book, Milano 2007, 11.

[9]     J. CARRON, La bellezza disarmata, Rizzoli, Milano 2015, 314.

[10]   M. BORGHESI, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, 23 ss.

[11]   FRANCESCO, Evangelii gaudium, 221 ss.

[12]   J. CARRON, La bellezza disarmata, cit., 313.

[13]   J. M. BERGOGLIO, Noi come cittadini, noi come popolo, Libreria Editrice Vaticana- Jaca Book, Città del Vaticano-Milano 2013, 29.

[14]Dall’omelia tenuta per i deputati cattolici del Bundestag, 26 novembre 1981, in J. RATZINGER- BENEDETTO XVI, Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio, cit., 65

[15]   Non ultimo, Pio XII nel suo radiomessaggio del Natale 1942, nel pieno “sfacelo” della Seconda guerra mondiale così interviene: <<Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società>>.

[16]   Ger 29, 5.7.

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