Il testo che segue è tratto dal mio volume Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» (Jaca Book 2021), pp. 99-103.
La disinvoltura di Novak, Weigel, Neuhaus nella loro lettura del magistero pontificio doveva emergere, dopo la scomparsa di Giovanni Paolo II, con la pubblicazione di Caritas in veritate da parte di Benedetto XVI il 29 giugno 2009. La reazione da parte dei neocon non fu affatto favorevole. A caldo, nel luglio 2009, Weigel commentava il documento in modo davvero singolare distinguendo tra la sua parte aurea, opera del papa, e quella rossa, opera della Pontificia Commissione “Iustitia et Pax”[1]. La posizione della Commissione era quella tipica della Populorum progressio di Paolo VI, un testo assolutamente negativo dal punto di vista di Weigel.
«Perché nella lunga serie di insegnamenti sociali papali che vanno dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, la Populorum Progressio è manifestamente la strana anatra, sia nella sua struttura intellettuale (che è appena riconoscibile in quanto in continuità con la struttura del pensiero sociale cattolico stabilito da Leone XIII ed estesa da Pio XI in Quadragesimo Anno) e nella sua lettura errata dei segni economici e politici dei tempi (offuscata dalle concezioni allora popolari di sinistra e progressista sul problema della povertà del Terzo mondo, le sue cause e i suoi rimedi). La Centesimus Annus ha riconosciuto implicitamente questi difetti, non da ultimo sostenendo che la povertà nel Terzo Mondo e nei paesi sviluppati oggi è una questione di esclusione dalle reti globali di scambio in un’economia dinamica (che pone l’enfasi morale sulle strategie di creazione di ricchezza, empowerment verso i poveri e l’inclusione), piuttosto che una questione di avidità del Primo Mondo in un’economia statica (che metterebbe l’enfasi morale sulla ridistribuzione della ricchezza)»[2].
È la nota tesi dei neocon: la Centesimus annus ha corretto la deriva anticapitalista, al centro della dottrina sociale della Chiesa, particolarmente accentuata nella Populorum progressio. Giovanni Paolo II contro Paolo VI. Una “correzione” che, però, non sarebbe stata sufficiente dal momento che, secondo Weigel, la Caritas in veritate opera un balzo all’indietro e mostra di voler tornare nel tradizionale solco della dottrina sociale.
Ora arriva Caritas in Veritate, l’enciclica sociale tanto attesa e tanto ritardata di Benedetto XVI. Sembra essere un ibrido, che fonde il pensiero perspicace del papa sull’ordine sociale con elementi dell’approccio di “Giustizia e Pace” alla dottrina sociale cattolica, la quale immagina quella dottrina ricominciare da capo dalla Populorum Progressio. In effetti, coloro che hanno lauree avanzate in vaticanologia potrebbero facilmente passare attraverso il testo della Caritas in Veritate, evidenziando quei passaggi che sono ovviamente benedettini con un pennarello d’oro e quelli che riflettono le attuali posizioni predefinite di “Giustizia e Pace” con un pennarello rosso. Il risultato netto è, con rispetto, un’enciclica che ricorda un ornitorinco dal becco d’anatra. I passaggi chiaramente benedettini della Caritas in Veritate seguono e sviluppano la linea di Giovanni Paolo II, in particolare nella forte enfasi della nuova enciclica sui temi della vita (aborto, eutanasia, ricerca sulle cellule staminali embrio-distruttive) come questioni di giustizia sociale […]. Ma poi ci sono quei passaggi che devono essere segnati in rosso – i passaggi che riflettono le idee e gli approcci di “Giustizia e Pace” che Benedetto evidentemente credeva di dover cercare di accogliere. Alcuni di questi sono semplicemente incomprensibili, come quando l’enciclica afferma che per sconfiggere la povertà e il sottosviluppo del Terzo Mondo è doverosa “una necessaria apertura, in un contesto mondiale, a forme di attività economica segnate da quote di gratuità e comunione”. Questo può significare qualcosa di interessante; può significare qualcosa di ingenuo o stupido. Ma, a prima vista, è praticamente impossibile sapere cosa significhi[3].
Così come, a giudizio di Weigel, non significa nulla la riflessione sul tema del “dono”, che l’Enciclica introduce. «Ma il linguaggio in queste sezioni della Caritas in Veritate è così confuso da suggerire la possibilità che ciò che può essere inteso come un nuovo punto di partenza concettuale per la dottrina sociale cattolica sia, in realtà, un sentimentalismo confuso proprio del tipo, che l’enciclica deplora, tra coloro che distaccano la carità dalla verità»[4]. Né per Weigel sarebbero significative le indicazioni sulla redistribuzione e sulla creazione della ricchezza, sezioni anch’esse introdotte dalla longa manus di “Iustitia et Pax”.
Se coloro che si sono nascosti nel lavoro intellettuale e istituzionale del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace immaginano che la Caritas in Veritate stia invertendo la rotta che credono di aver subito con la Centesimus Annus, e se immaginano inoltre che la Caritas in Veritate metta la dottrina sociale cattolica su un corso completamente nuovo definito dalla Populorum Progressio (come ha già detto un consulente di “Giustizia e Pace”), è probabile che rimarranno delusi. L’incoerenza delle sezioni “Giustizia e Pace” della nuova enciclica è così profonda, e il linguaggio in alcuni casi così impenetrabile, che quello che i difensori della Populorum Progressio potrebbero pensare essere un nuovo suono di tromba è molto più simile al gorgheggio di un ottavino non sintonizzato[5].
La preoccupazione di Weigel, manifesta nel tono beffardo, è evidente: dopo che la lettura neocon è riuscita a imporre la “sua” interpretazione della nuova dottrina sociale della Chiesa, ora Caritas in veritate, con le sue punture anticapitalistiche, rischia di riattualizzare la prospettiva della Populorum progressio. Dopo il Giovanni Paolo II interpretato da Novak, Benedetto ci riporta a Paolo VI. Da qui la sua lettura “politica” dell’Enciclica, che “seziona” con il bisturi la parte aurea di Benedetto da quella rossa di “Giustizia e Pace”, accettabile l’una, da rifiutare l’altra. Un procedimento davvero singolare che non tiene in minima considerazione il fatto che l’Enciclica porta la firma con la quale il papa, in questo caso Benedetto, sottoscrive con la sua autorità il documento nella sua integralità. Al contrario, per Weigel si tratta di una benigna concessione, di un atto di generosità.
Benedetto XVI, anima veramente gentile, potrebbe aver ritenuto necessario inserire nella sua enciclica questi molteplici foglietti, per mantener pace all’interno della sua famiglia curiale. Chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire concentrerà la sua attenzione, leggendo Caritas in Veritate, su quelle parti dell’enciclica che sono chiaramente benedettine, tra cui il marchio di fabbrica della difesa, da parte del Papa, della necessaria congiunzione tra fede e ragione e la sua estensione al tema principale di Giovanni Paolo II – che tutte le questioni sociali, comprese le questioni politiche ed economiche, sono in ultima analisi domande sulla natura della persona umana[6].
La recensione di Weigel dell’enciclica papale del 2009 era un chiaro documento del disaccordo tra l’autore e la prospettiva di Benedetto XVI. Caritas in veritate rompeva l’illusione su cui il progetto neocon era stato edificato: quello dell’identificazione tra cattolicesimo e capitalismo a partire dalla “svolta” operata dalla Centesimus annus. I neocon da apologeti del pontificato diventavano, in parte, critici. L’americanismo cattolico si manifestava per quello che era: una forma di accomodamento e di legittimazione del potere economico e politico maturato in una generazione di intellettuali cattolici, reduci dalla sinistra, durante l’era Reagan. In una sorta di epitaffio di Weigel, Anthony Annet scrive nel 2015:
Tuttavia, direi che pochi cattolici americani nell’era moderna si sono arresi allo spirito dell’epoca – l’era di Reagan e la rinascita del liberalismo del libero mercato e del militarismo aggressivo – come George Weigel. Da decenni Weigel è una spina nel fianco dell’autentico insegnamento sociale cattolico, cercando di battezzare il liberalismo economico e l’eccezionalità americana con le acque della fede cattolica. Insieme a compagni di viaggio come Richard John Neuhaus e Michael Novak, ha spacciato l’idea che la Centesimus Annus, l’enciclica sociale di riferimento di Giovanni Paolo II del 1991, rappresentasse una rottura decisiva con il passato, uno sviluppo significativo della dottrina che ha visto la Chiesa abbracciare pienamente il capitalismo e l’economia di libero mercato. Una semplice lettura dell’enciclica stessa mette in luce la vacuità di tale affermazione. Tuttavia Weigel e gli altri hanno effettivamente prodotto una versione ridotta dell’enciclica, che è riuscita a rimuovere i passaggi che andavano contro la loro lettura radicale. Non esattamente il massimo dell’onestà. Weigel è tornato in azione con la pubblicazione della Caritas in Veritate di Papa Benedetto XVI nel 2009, la quale costituisce una profonda riflessione sulle malattie dell’economia globale moderna. Questa volta, Weigel ha trovato troppo difficile eliminare gli elementi fastidiosi, quindi si è inventato la sua “esegesi enciclicale”, invitando i lettori a distinguere l’autentica “penna d’oro” del papa e la falsa “penna rossa” dei membri di sinistra associati con il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace[7].
Rispetto al metodo esegetico disinvolto di Weigel quello di Novak dimostrava di essere più scaltro. Non rinunciava, però, a distinguere la parte buona da quella cattiva della Caritas in veritate accreditando anche lui, al pari di Weigel, l’idea dell’ambiguità del testo passibile di una doppia lettura.
Inoltre, nelle sue discussioni concrete su temi di attualità, quasi ogni volta che Benedetto sembra concedere un punto alla sinistra, tratto solitamente dalla Populorum Progressio (1967), egli finisce per rimangiarselo o per attenuarlo, rifacendosi ad insegnamenti appresi tra il 1967 e il 1991 così come sono documentati nella Centesimus Annus. Il suo agire pratico segue il suo intento. Lascia correre entrambi i cavalli e non sceglie lui stesso di schierarsi con nessuno dei due. Per certi versi questa apertura sembra sconcertare molti lettori e ha come risultato quello di far apparire questo particolare scritto di Benedetto xvi come insolitamente inconsistente e oscuro. Spesso sembra che vada in due direzioni contemporaneamente. Molte frasi sono quasi impossibili da analizzare in termini pratici: che cosa diavolo significa in pratica? Tale rifiuto di indulgere all’ideologia possiede una grande forza che compensa la suddetta debolezza. La sua forza consiste nell’ innalzare il pensiero ad altre dimensioni della verità e evita litigi che appartengono più alla Città dell’uomo che alla Città di Dio[8]126.
L’enciclica, in poche parole, non permetterebbe di scendere sul terreno empirico e quando lo fa le sue soluzioni, divise tra solidarietà e sussidiarietà, risultano essere ambivalenti, fruibili per la sinistra come per la destra. In tal modo l’ermeneutica di Novak provvedeva a “neutralizzare” il testo del Papa. La recensione in realtà non affronta nessuno dei nodi della Caritas in veritate. Il testo non era piaciuto né a lui né a Weigel.
[1]G. Weigel, Caritas in Veritate in Gold and Red, «National Review» (7 July 2009).
[2]Ibidem.
[3]Ibidem.
[4]Ibidem.
[5]Ibidem.
[6]Ibidem.
[7]A. Annett, The Enduring George Weigel Problem, «Commonweal» (28 May 2015).
[8]M. Novak, Pope Benedict’s Caritas, «First Things Online» (17 August 2009).