Sono grato a Roberto Righetto (nella foto) che martedì 25 marzo su Avvenire ha recensito il volume da me curato Il cristiano e l’anima carnale. L’attualità «inattuale» di Charles Péguy, Studium, Roma, 2024.
Roberto Righetto ha diretto le pagine culturali di «Avvenire» dal 1988 al 2016. Attualmente è coordinatore della rivista «Vita e Pensiero», il bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del suo approfondimento quindicinale online VP PLus.
Ha curato i volumi Racconta il tuo Dio (Oscar Mondadori, 1992); Salvaciòn, Gialli religiosi (Piemme, 1995); I racconti dell’Apocalisse (Sei, 1995); Monaci. Silenzio e profezia nell’era post-cristiana. Dialoghi con Divo Barsotti, Enzo Bianchi, Anna Maria Canopi e Ildegarde Sutto (Giunti, 1997); La conversione del filosofo maoista Maurice Clavel (Piemme, 1998) Aldilà & dintorni. Dieci dialoghi sulle «cose ultime» (San Paolo, 2003); Venti maestri del secolo breve (Jaca Book, 2019); Parole oltre. I libri che i cattolici devono leggere (Edizioni dell’Asino, 2020); con Silvano Petrosino: L’essenziale. Globalizzazione della chiacchiera e resistenza della cultura (Castelvecchi, 2023).
Ecco il testo della recensione.
Avvenire, martedì 25 marzo, p. 18, Péguy, il poeta e il filosofo dell’Incarnazione (Roberto Righetto)
Bisogna tornare a Péguy, questo fervente socialista e mangiapreti poi convertito al cristianesimo con un impeto che lo fa restare al fondo anticlericale, profondamente ostile al mondo cattolico borghese e con una fede enorme nell’azione della grazia, ben più che nelle strutture ecclesiali. Bisogna tornare a Péguy: lo avevano già capito De Lubac e von Balthasar e, in anni più recenti, Etchegaray e Danneels. Strattonato dalla destra e dalla sinistra, a lungo dimenticato in Italia e persino in Francia, nei decenni recenti lo scrittore morto durante la Grande Guerra è tornato in auge grazie a due libri a lui dedicati: Péguy il non cristiano di Jean Bastaire (tradotto in Italia da Jaca Book nel 1994) e L’incontemporaneo di Alain Finkielkraut (edito da Lindau nel 2012).
Ora sull’autore della mirabile trilogia su Giovanna d’Arco esce per i tipi di Studium il libro Il cristiano e l’anima carnale (a cura di Massimo Borghesi, pagine 196, euro 20). È una raccolta di saggi che spaziano dalla teologia alla letteratura e mettono a fuoco l’intera opera di Péguy, «poeta e filosofo dell’Incarnazione», come lo qualifica nell’introduzione Borghesi. Il quale riporta una frase di papa Francesco sullo scrittore francese, pronunciata all’Udienza generale nel settembre 2017: «Ci ha lasciato pagine stupende sulla speranza. Egli dice poeticamente che Dio non si stupisce tanto per la fede degli esseri umani, e nemmeno per la loro carità, ma ciò che veramente lo riempie di meraviglia e commozione è la speranza della gente». Bergoglio aveva in mente alcuni passi famosi di Péguy come: «Bisogna salvarsi insieme. Bisogna arrivare insieme dal buon Dio. Bisogna presentarsi insieme. Non bisogna arrivare e trovare il buon Dio gli uni senza gli altri. Bisogna ritornare tutti insieme alla casa di nostro padre».
Charles Péguy (Orléans 1873 – Villeroy 1914) ben presto aderì alle idee socialiste, ostile com’era alla società borghese e capitalista, come avrebbe messo in luce Antonio Gramsci. «La militanza rivoluzionaria che Péguy abbraccia come una religione alle soglie della giovinezza – scrive Gianni Valente in un saggio che ne ricostruisce l’itinerario dal socialismo al cristianesimo – si nutre della rabbia per l’ingiustizia e dell’impeto per un riscatto possibile per tutti gli oppressi». L’approdo alla fede cristiana, nel 1907, non gli fece perdere l’anticlericalismo di fondo, che si manifestò nella lotta contro l’appiattimento dei credenti nel borghesismo e l’ipocrisia del mondo cattolico. Elementi ben messi in luce dal cardinale Godfried Danneels che lo definisce un pensatore “inclassificabile”. In un intervento pronunciato a Roma nel 2001, l’arcivescovo di Bruxelles, scomparso nel 2019, rileva tre elementi fondamentali nella sua opera. Innanzitutto la logica dell’Incarnazione: «Per Péguy più vi è Dio e più vi è l’uomo; e più vi è l’uomo e più vi è Dio». Un’unione fra eterno e temporale che sarebbe stata ribadita dal Concilio ma che all’inizio del ‘900 non era affatto scontata. Poi, la consapevolezza di vivere in un mondo che già allora era assai secolarizzato. «In tutto questo – rileva Danneels – Péguy ha una grande simpatia per il mondo. Noi viviamo in un tempo completamente scristianizzato, una situazione che si potrebbe anche descrivere come una deforestazione della memoria cristiana. Non c’è più un vocabolario cristiano. I ragazzi non conoscono nemmeno le parole cristiane. Lui lo sapeva già in quel tempo, ma non è mai diventato uno di quelli che accusano la modernità e gli uomini moderni con una sorta di moralismo». Anzi, la sua critica si rivolge innanzitutto alla Chiesa e ai chierici, colpevoli di aver ridotto il cristianesimo a «una religione da borghesi, una religione da ricchi, una specie di religione superiore per classi superiori».
Infine, Danneels mette in luce il primato della grazia: più che nella forza delle opere o delle strutture, il credente deve fondare la sua fede sull’azione della grazia, «che tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta». Atteggiamento che rispecchia il momento della sua conversione, che non è stata di tipo intellettuale e non gli ha fatto rinnegare il passato. Basta prendere in mano un’opera come Il denaro, del 1913 (in Italia pubblicata dalle edizioni Il Lavoro nel ’90 e riedita da Castelvecchi e Piano B), ove ribadisce con forza le sue opinioni anticapitalistiche, contro un sistema che produce «questa stretta economica, questo strangolamento scientifico, freddo, rettangolare, regolare, costumato, netto, senza una sbavatura, implacabile, accorto, una stretta in cui si è presi senza che si abbia nulla da ridire e dove chi è strangolato ha l’aria di avere così palesemente torto».
Altri saggi ricordano i suoi legami con Orléans e la Pulzella (Antonio Socci) e con Chartres (Giuseppe Frangi), altri l’intreccio tra poesia, mistica e politica (Mimmi Cassola). Quest’ultima, cui si deve la traduzione da Jaca Book della trilogia dei Misteri di Giovanna d’Arco, sottolinea come Péguy non si scandalizzasse per il peccato ma considerasse nemico della fede cristiana autentica l’abitudine, che uccide la freschezza di spirito. Lo dice lo stesso poeta francese: «C’è qualcosa di peggio che avere un’anima perversa, è avere un’anima abituata»